La visione strategica di Henry Kissinger

16/09/2015

Niall Ferguson ha appena scritto un libro su Kissinger e sul suo pensiero nei riguardi della politica internazionale. Analizzando soprattutto le idee sviluppate da Kissinger nel periodo di Harvard, tra gli inizi degli anni ‘50 e la fine degli anni 60, l’autore mostra come le posizioni kissingeriane vadano ben oltre l’abituale concetto di realpolitik, o realismo politico.

1) Per Kissinger la storia è la chiave per comprendere rivali o alleati; in altre parole, la storia è la memoria degli stati. Nella sua tesi di dottorato sul Congresso di Vienna scrisse: Chi può mettere in discussione l'interpretazione che una nazione dà del proprio passato? È il suo unico modo di affrontare il futuro; ciò che è realmente accaduto è spesso meno importante di quello che si pensa sia accaduto. […] Gli stati si considerano espressione di forze politiche. L’equilibrio [di potenza] non è un fine in sé, ma un mezzo per realizzare le aspirazioni storiche degli stati ”.

2)  Le scelte politiche spesso non si basano su fatti, ma sulla loro interpretazione. […] La capacità di decidere richiede l’abilità di proiettarsi oltre ciò che è conosciuto […] Se si cercano delle prove tangibili [prima di agire] allora in un certo senso si diventa prigionieri degli eventi.  Kissinger porta a esempio le scelte nei confronti di Hitler: se i regimi democratici avessero combattuto i nazisti subito, nel 1936, oggi non sapremmo se Hitler era solo un nazionalista incompreso, se aveva obiettivi relativamente limitati o se era un maniaco folle. Le democrazie ora sanno che era davvero un maniaco, ma hanno pagato questa certezza con decine di milioni di vite.

Kissinger sottolinea come la scelta tra l’azione o l’inazione – o tra l’azione risoluta e preventiva e quella più cauta e attendista – comporti vantaggi asimmetrici. È più probabile che il politico che decide di agire preventivamente venga condannano per i costi della sua azione preventiva piuttosto che osannato per aver evitato un disastro. È insito nella natura stessa delle politiche di successo il fatto che i posteri dimentichino che probabilmente le cose sarebbero andate diversamente se lo statista avesse fatto scelte diverse. Inoltre, solitamente uno sforzo minore produce una minore resistenza interna. L’esempio è la decisione di usare la bomba atomica contro il Giappone nel 1945 per evitare possibilmente un altro anno di sanguinosi combattimenti sul terreno, che avrebbero causato molti più morti. Questo porta al terzo pilastro del pensiero politico di Kissinger.

3) Spesso in politica estera non si può scegliere tra bene e male, ma solo tra mali minori o maggiori.

La difficoltà nelle decisioni politiche non è fare la scelta giusta o quella sbagliata; le scelte davvero problematiche sono quelle tra più mali, quando l’azione più morale è soltanto la scelta di un male minore. Secondo Kissinger mantenere l’equilibrio di potenza durante la Guerra Fredda richiedeva una serie di scelte di questo tipo. Scriveva in quel periodo: “Siamo certi di confrontarci con situazioni di straordinaria ambiguità. […] Dobbiamo trovare la volontà di agire e di assumere rischi in una situazione che permette solo una scelta tra mali. Non dobbiamo mai rinunciare ai nostri principi, ma dobbiamo anche renderci conto che possiamo difendere i nostri principi soltanto da vivi, dunque occorre difendere prima la nostra incolumità. […] Avere a che fare con problemi così complessi richiede prima di tutto un atto morale: la volontà di assumere rischi pur non avendo certezze, accettare di applicare i nostri principi in maniera imperfetta”. Il concetto trovò applicazione nella gestione della guerra del Vietnam: Kissinger comprese che il conflitto poteva concludersi solo con una pace negoziata, che era il male minore rispetto al frettoloso abbandono del Vietnam del Sud o un’ulteriore escalation militare.

4) Il destino solitario degli statisti.

Kissinger considera le società “incapaci del coraggio del cinismo”.  A suo avviso uno dei problemi centrali dell’era democratica è che i popoli tendono a preferire leader carismatici a statisti capaci. Il destino degli statisti è quello di essere sempre in minoranza, poiché gli uomini si esaltano non per l’equilibrio ma per l’universalismo, non per la sicurezza ma per l’immortalità. Questo lo rendeva piuttosto pessimista circa la strategia estera americana. “Non esiste quella cosa chiamata politica estera americana”, scriveva già nel 1968. Ci sono solo “una serie di mosse che hanno prodotto un certo risultato, ma che non erano state pianificate per produrre questo risultato, a cui si cerca a posteriori di attribuire una razionalità e una consistenza che semplicemente non hanno”. A suo avviso questa mancanza di coerenza strategica è la patologia della democrazia perché, contrariamente ai leader del XIX secolo, il tipico leader politico della società contemporanea è un uomo con una forte volontà, perciò capace di farsi eleggere, ma non ha una grande consapevolezza di quello che farà quando avrà assunto i poteri
Spesso in politica estera non si può scegliere tra bene e male, ma solo tra mali minori o maggiori.

Attaccato durante il periodo di governo da entrambe le parti − la sinistra lo accusava di crimini di guerra nel Terzo Mondo, la destra di prostrarsi davanti al Cremlino − le intuizioni di Kissinger in politica estera non hanno fatto scuola, nonostante i grandi successi raggiunti. Qualunque sia il giudizio sulle politiche di Nixon e Kissinger, è innegabile che avessero una chiara strategia per gestire le sfide degli Stati Uniti. Tre ne furono i pilastri: far rivivere l’alleanza transatlantica con l’Europa occidentale; cercare la distensione attraverso la cooperazione con l’Unione Sovietica, senza però rinunciare a contenerne la potenza; sfruttare la rivalità tra Cina e URSS, portando gli Stati Uniti a essere più vicini a ognuno dei due contendenti di quanto lo fossero tra di loro. Ferguson lamenta la mancanza di una simile chiarezza di visione nei politici americani degli ultimi decenni. Da troppo tempo sottovalutano l’importanza della storia nella comprensione delle nazioni che devono affrontare; sottostimano i benefici di un’azione preventiva e il costo dell’inazione; scartano una serie di scelte difficili e si nascondono dietro discorsi ampollosi, ma in realtà praticano un cinico realismo di piccola portata. Il che pare una critica diretta soprattutto alla politica estera di Obama.

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