Medio Oriente,
evolvono gli equilibri

03/04/2015

Da un’analisi di George Friedman per Stratfor

Una coalizione di paesi arabi, prevalentemente sunniti e a guida saudita, bombarda lo Yemen da una settimana. L’obiettivo dell’attacco sono gli Houthi, setta sciita yemenita sostenuta dall’Iran, e i loro alleati sunniti, che comprendono la maggioranza delle forze armate fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh. Gli Stati Uniti forniscono servizi d’intelligence e sostegno, ma nessun velivolo militare statunitense è coinvolto nei bombardamenti. La nuova strategia americana nella regione diventa sempre più chiara: trasferire l’onere del combattimento alle potenze regionali, mantenendo un ruolo secondario per poter eventualmente intervenire e correggere gli squilibri indesiderati.

Avendo comprato armi di ultima generazione per anni, i Sauditi e i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo sono ora in grado di condurre operazioni militari sofisticate, perlomeno in Yemen. Hanno prima eliminato la difesa aerea nemica – gli Houthi avevano i missili terra-aria dall’esercito yemenita fedele a Saleh – poi hanno attaccato i sistemi di comando e controllo. Ciò significa che, benché abbiano sempre lasciato volentieri l’onere del combattimento agli Stati Uniti, gli stati regionali sono in grado di combattere quando gli USA decidono di non impegnarsi.

Gli attacchi contro gli Houthi hanno inoltre puntato i riflettori su un altro fenomeno di crescente importanza nella regione: la guerra tra sunniti e sciiti. In Iraq e Siria si sta combattendo una guerra senza quartiere. Lo Stato Islamico si presenta come sostenitore di tutti i ‘veri’ sunniti contro le coalizioni messe insieme dai governi in Iraq e Siria, che sono una mescolanza di denominazioni religiose varie, sia islamiche sia cristiane, ma con preponderanza di sciiti. In Yemen una lotta di potere locale tra fazioni contrapposte è stata elevata a conflitto settario. Ciò che sta accadendo non è soltanto una guerra tra sciiti e sunniti, ma per capire la situazione non si può prescindere da tale contrapposizione.

La strategia iraniana e la risposta saudita

L’Iran vuole ampliare la propria sfera d’influenza nel mondo arabo. È una strategia perseguita fin dai tempi dello Scià, che negli ultimi anni punta fino al Mediterraneo. Considerata la forza degli Hezbollah in Libano e il raggio di azione di Assad, il raggiungimento di tale obiettivo dipende dalla sopravvivenza del regime di Assad in Siria e dal successo del governo filo-iraniano in Iraq. Nel 2012 il governo di Assad era prossimo al collasso e il governo iracheno sembrava relativamente indipendente dall’Iran. L’Iran era anche sottoposto a sanzioni internazionali: era in stallo, sulla difensiva. Paradossalmente, l’ascesa dello Stato Islamico ha rinvigorito il potere iraniano. Benché la violenta propaganda dello Stato Islamico punti a raffigurare il gruppo non soltanto come terrificante, ma anche estremamente potente, in realtà lo Stato Islamico rappresenta soltanto una frazione della comunità irachena sunnita, a sua volta minoritaria in Iraq. La comunità sciita si è mobilitata contro lo Stato Islamico, permettendo agli Iraniani di gestire di fatto le milizie sciite in Iraq e (parzialmente) lo stesso esercito iracheno, e costringendo gli Stati Uniti – intervenuti con forze aeree – a collaborare con forze terrestri guidate dall’Iran. Il fatto che la strategia americana consista nel fermare l’avanzata dello Stato Islamico – anche a costo di collaborare con l’Iran – evitando di dispiegare forze terrestri, significa che quando lo Stato Islamico rivelerà la sua debolezza intrinseca, di fatto in Iraq vincerà l’Iran.

La situazione in Siria è simile, ma con qualche differenza. L’Iran e la Russia hanno sempre sostenuto il governo di Assad. L’Iran ha impegnato sul campo i suoi alleati Hezbollah. Gli Stati Uniti, inizialmente oppositori del regime, considerate le alternative hanno assunto una posizione neutrale. Assad spera che tale neutralità si tramuti nella possibilità di un dialogo diretto con Washington. Ma quello che più conta è che ormai l’Iran è in grado di mantenere la propria influenza in Siria tramite le forze schierate sul terreno.

Se si osserva una mappa della regione e si pensa alla situazione in Yemen, si capisce perché i Sauditi e i Paesi della Cooperazione del Golfo siano dovuti intervenire: non soltanto l’Iran si sta rafforzando nei Paesi a nord della penisola Arabica, ma una vittoria degli Houthi porterebbe alla nascita di uno stato sciita e filo-iraniano anche a sud. I Sauditi vogliono scongiurare la possibilità di un accerchiamento sciita o iraniano. Gioca a favore dei Sauditi il fatto che gli Houthi non sono il braccio armato degli sciiti come gli Hezbollah. Inoltre, tra denaro saudita e operazioni militari volte a smantellare le vie dei rifornimenti iraniani agli Houthi, la coalizione dovrebbe riuscire a contenere il pericolo.

I Sauditi non possono non reagire a quanto avviene nella Penisola. Durante le Primavere arabe, uno dei primi tentativi di rovesciamento del governo si verificò in Bahrain. La rivolta fallì perché l’Arabia Saudita intervenne unilateralmente e impose la sua volontà, reprimendo le proteste. È chiaro che i Sauditi cercheranno di impedire a qualunque costo l’ascesa di un regime sciita alleato dell’Iran nella penisola Arabica. Il ruolo dell’Arabia Saudita è abbastanza chiaro: Riyad rappresenta il centro di gravità del mondo sunnita. I Sauditi perseguono una strategia che è allo stesso tempo difensiva e offensiva. Il loro obiettivo è arginare l’influenza sciita e iraniana tramite una coalizione che usa forze aeree a sostegno degli alleati dispiegati sul terreno. È la stessa strategia usata attualmente dagli USA, ma su scala più ridotta. Funzionerà?

La posizione degli USA

La strategia degli USA è più complessa ed è principalmente volta al mantenimento dell’equilibrio di potere nella regione. In Yemen, gli USA forniscono assistenza ai Sauditi, ma in Iraq forniscono assistenza agli sciiti e i loro alleati, bombardando le basi dello Stato Islamico. In Siria la strategia USA è così complessa da non riuscire a spiegarla! I modelli di schieramento semplicistici della Guerra Fredda non funzionano più.

Nel frattempo i negoziati nucleari con l’Iran sono in dirittura d’arrivo: pare che gli USA non temano più l’Iran. Eppure l’Iran sta sempre cercando di ampliare la propria sfera d’influenza fino al Mediterraneo. Potrebbe serrare la penisola Arabica in una morsa, minacciandola da nord e da sud. In questo caso, che cosa faranno gli USA? Secondo l’attuale dottrina, ci deve essere un equilibrio tra Iran e Arabia Saudita e gli USA devono oscillare tra i due. Di conseguenza, gli USA non possono permettersi di impegnarsi sul terreno né a favore degli uni, né a favore degli altri.

Il ruolo della Turchia

La Turchia ha un ruolo fondamentale in questo scenario. Ha l’economia e l’esercito più grandi della regione, ma lungo i suoi confini meridionali imperversa il caos, la tensione nel Caucaso cresce e si combatte in Ucraina, sull’altra sponda del Mar Nero. Ankara guarda con preoccupazione soprattutto alla situazione in Siria e in Iraq e alla potenziale ascesa del potere iraniano. Ha recentemente accusato Teheran di voler dominare la regione. Erdogan sperava che fosse la sua Turchia a diventare leader della regione e del mondo sunnita, eppure la Turchia sta facendo poco in Iraq e in Siria, mentre l’Arabia Saudita ha un ruolo attivo: sembra che la Turchia non intenda cogliere l’occasione che le si presenta. Tuttavia, la Turchia rimane la principale potenza e la terza stampella dell’equilibrio regionale che coinvolge Iran e Arabia Saudita. Qualsiasi azione della Turchia avrebbe un impatto su tale equilibrio ben superiore a quello di qualunque intervento temporaneo degli USA o di altri paesi al di fuori della regione. Se l’Iran, cessate le sanzioni, si dedicherà a rafforzare la propria egemonia in Siria e Iraq, la Turchia non potrà non essere attratta nel gioco per prevenire squilibri pericolosi – e forse allora la nuova strategia americana raggiungerà lo scopo. Ma il gioco è molto pericoloso, e il risultato potrebbe invece essere la creazione di più gravi squilibri. 

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