L’Europa e l’islam secondo George Friedman,
presidente di Strategic Forecasting

16/01/2015

 

Dal saggio ‘A war between two worlds’, pubblicato il 13 gennaio 2015.

Nota: Le opinioni espresse da George Friedman non rappresentano necessariamente le opinioni della Fondazione. Sono presentate come spunti di riflessione.

 

L’attuale stato dei rapporti fra islamici e cristiani in Europa affonda le radici nella fine dell’egemonia europea in Nord Africa dopo la Seconda Guerra Mondiale e nella necessità di forza lavoro a basso costo in larghe parti d’Europa. Gli Europei accolsero i musulmani delle loro ex colonie come immigrati. Costoro non emigravano perché attratti dalla cultura europea, ma alla ricerca di migliori prospettive economiche. La necessità dell’Europa di forza lavoro a basso costo e quella dei musulmani di sfuggire alla disoccupazione portarono a una migrazione di massa.

L’Europa del dopoguerra non poteva più dirsi semplicemente cristiana. La cristianità aveva perso il controllo egemonico sulla cultura europea ed era stata affiancata, se non scalzata, dal secolarismo. Il secolarismo prevede una netta separazione tra sfera pubblica e privata e relega la religione in quella privata, impedendole di influenzare la vita pubblica. Ma i principi del secolarismo non sono condivisi da tutti. Alcune credenze sono così diverse fra di loro, che risulta impossibile trovare un terreno comune nello spazio pubblico; per altri la distinzione stessa tra pubblico e privato è insensata o inaccettabile.

L’Europa ha favorito l’ingresso entro i suoi confini di persone che non solo non condividono le basi del secolarismo, ma le respingono. Quello che la cristianità oggi considera un progresso rispetto ai conflitti settari è invece visto dai musulmani − e da alcuni cristiani − semplicemente un sintomo di decadenza, un indebolimento della fede.

Che cosa intendiamo quando parliamo di cristianità, islam o secolarismo? Ci sono più di due miliardi di cristiani, poco meno di due miliardi di musulmani nel mondo, e un numero non precisato di secolaristi: è difficile stabilire che cosa si intenda quando si impiega uno di questi termini, ed è facile contestarne il significato. Nel nostro uso del linguaggio è insita un’indeterminatezza tale da permetterci di spostare la responsabilità di quanto accaduto a Parigi da una religione intera a una corrente minoritaria, o alle sole azioni di coloro che hanno fisicamente premuto il grilletto. La caratteristica basilare del secolarismo è proprio il rifiuto di stereotipare. In questo modo però si arriva difficilmente a definire con chiarezza chi possa essere considerato responsabile di che cosa. Spostando ogni responsabilità a livello individuale, il secolarismo tende a togliere ogni responsabilità alle nazioni e alle religioni. Questo non è necessariamente sbagliato, ma ha ripercussioni pratiche molto problematiche. Ritenere che solo l’attentatore e i suoi diretti sostenitori siano responsabili, mentre tutti coloro che con lui condividono gli stessi principi sono senza colpa, significa, in pratica, privarsi della possibilità di difendersi. Non tutti i musulmani, né la maggior parte di essi, sono responsabili di quanto accaduto, ma tutti i responsabili degli attentati di Parigi erano musulmani e si ergevano a portavoce dei musulmani. Si può dire che si tratta di un problema interno all’islam e dunque ritenere i musulmani gli unici ad avere il dovere di risolverlo. Ma che cosa accade se non lo fanno?

A questo dilemma si aggiunge la realtà – inconfessata ma evidente − che in generale gli europei non considerano i musulmani che vengono dal Nord Africa o dalla Turchia come europei, né hanno intenzione di permettere loro di diventarlo. La soluzione escogitata è il multiculturalismo: una nozione estremamente liberale in teoria, ma che in pratica produce frammentazione culturale e ghettizzazione.

C’è poi un altro problema di natura geopolitica. L’Europa è sovrapopolata e, contrariamente agli Stati Uniti o all’Australia o al Canada, non ha spazio per assorbire milioni di immigrati in maniera permanente. Un incremento della popolazione, specie nei paesi più popolosi, è difficile da gestire.

Nel multiculturalismo è insita una certa dose di separatismo. L’appartenenza a una cultura implica il desiderio di vivere con le persone che la condividono. Date le condizioni di povertà degli immigrati, l’esclusione insita nel concetto e nella pratica del multiculturalismo e la volontà di stare con chi ci è simile, i musulmani si sono trovati a vivere in quartieri sovraffollati e poveri. Nelle periferie di Parigi ci sono grandi quartieri di palazzi enormi che ospitano soltanto i musulmani, separandoli dai Francesi, che vivono altrove.

Gli attentati di Parigi non dipendono dalla povertà. Gli immigrati appena arrivati sono sempre poveri; la povertà è proprio ciò che li spinge a partire. Finché non imparano la lingua e i costumi dei loro nuovi paesi, sono sempre ghettizzati e alienati. È la generazione seguente a crescere all’interno della cultura maggioritaria. Ma la falla del multiculturalismo consiste proprio nel favorire il perpetuarsi dell’emarginazione dei musulmani. I musulmani non avevano davvero l’intenzione di diventare europei, gli europei non avevano davvero l’intenzione di integrare i musulmani come europei. Questo ha prodotto l’orribile spettacolo andato in scena la scorsa settimana a Parigi.

 

Il ruolo dell’ideologia

Il problema però non riguarda solo i rapporti tra Europa e islam; la questione è molto più grande.

Lo zelo evangelico del cristianesimo si è affievolito e da secoli non usa la spada per uccidere e convertire i nemici. Alcune parti dell’islam, invece, conservano questo zelo. Sottolineare che non tutti i musulmani condividono questo zelo non risolve il problema. Lo condividono abbastanza musulmani da mettere a rischio la vita di coloro che disprezzano, e questo non può essere tollerato né dagli occidentali che ne sono i bersagli, né dai musulmani che si rifiutano di aderire all’ideologia jihadista.

Purtroppo non c’è modo di distinguere quelli che potrebbero uccidere da quelli che non lo faranno. Forse la comunità musulmana potrebbe essere in grado di fare questa distinzione, ma non la polizia. Se i musulmani non possono o non vogliono esercitare questo controllo al loro interno, arriviamo a uno stato di guerra. Il primo ministro francese Manuel Valls l’ha definita una guerra contro l’islam radicale. Se ci fossero uniformi o segni distintivi, non sarebbe un problema combattere esclusivamente gli islamisti radicali. Ma, malgrado la distinzione fatta da Valls, o tolleriamo carneficine periodiche, oppure consideriamo la comunità musulmana come potenzialmente pericolosa, fino a prova contraria. Si tratta di un’alternativa terribile, ma la storia ne è piena. Dichiarare guerra agli islamisti radicali è come dichiarare guerra agli ammiratori di Sartre: che aspetto hanno? Come posso individuarli?

L’incapacità europea di fare i conti con la realtà al proprio interno non impedisce di vedere che in molti paesi musulmani sono in corso guerre civili. La situazione è molto complessa e confusa, e anche la morale viene usata come un’arma.  Le dimensioni geopolitiche dei rapporti dell’islam con l’Europa, l’India, la Tailandia o gli Stati Uniti non si possono lasciare ai moralismi.

Non so esattamente che cosa si debba fare, ma temo di sapere che cosa accadrà.

Non è vero che l’islam sta semplicemente reagendo ai torti che ha subito in tempi moderni. Gli Assassini, per esempio, erano una setta segreta islamica che si dava il compito di uccidere chi era considerato eretico. Non c’è niente di nuovo in quello che succede oggi. La guerra degli islamisti non si fermerebbe se l’Iraq fosse in pace, i musulmani occupassero il Kashmir o Israele sparisse.

Né il mondo islamico sta per essere investito dal secolarismo. Il possibile esisto felice delle “primavere arabe” è stata una fantasia dell’Occidente. Esistono certamente musulmani liberali e secolaristi di matrice islamica, ma non hanno il controllo degli eventi – nessun gruppo l’ha attualmente nel mondo islamico. Ma sono gli eventi, non la teoria, a incidere sulle nostre vite.

L’identità nazionale in Europa si basa su alcuni tratti condivisi − storia, lingua, etnia − ma anche sulle tradizioni cristiane e sul secolarismo odierno. I musulmani non condividono neanche uno di questi elementi. Se episodi come quelli di Parigi si ripeteranno, è difficile immaginare un esito diverso dalla ghettizzazione e deportazione dei musulmani. È una misura inaccettabile moralmente, ma non estranea alla storia europea. Incapace di distinguere gli islamisti radicali dagli altri musulmani, l’Europa muoverà in questa direzione, anche se non intenzionalmente.

Paradossalmente questo è proprio ciò che vogliono i musulmani radicali, perché rafforza la loro posizione all’interno del mondo islamico, in particolare in Nord Africa e in Turchia. Ma se l’alternativa è vivere oppressi dal costante pericolo di morte, l’Europa non potrà sopportarlo.

Gli Stati Uniti sono una realtà diversa. Non sono una comunità naturale, ma artificiale: è stata inventata dai fondatori su certi principi ed è aperta a chiunque aderisca a quei principi. Il nazionalismo europeo è romantico, naturalistico; si basa su legami che risalgono molto indietro nel tempo e che non possono essere spezzati facilmente. Inoltre l’idea di principi condivisi diversi dai propri infastidisce i religiosi di ogni luogo, e oggi in particolar modo infastidisce i religiosi musulmani.

Le rive del Mediterraneo sono state teatro di conflitti ben prima della nascita del cristianesimo e dell’islam. Rimarrà un luogo di scontro, oltre che di incontro. È un’illusione pensare che i conflitti che hanno radici nella geografia appartengano al passato. Stiamo entrando in un vicolo cieco, in cui si dovranno prendere decisioni, anche se qualunque decisione sarà dolorosa. Questa è una guerra che, come tutte le guerre, si differenzia da quelle che l’hanno preceduta per i metodi con i quali viene combattuta. Ma è comunque una guerra, e negarlo sarebbe negare l’evidenza.

 

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