I filosofi di Hitler
di Yvonne Sherratt

12/11/2014

Il libro di Yvonne Sherratt nasce dal disincanto. Quello di una giovane studentessa fiduciosa che la filosofia, in quanto derivante dalle scienze morali, fosse incompatibile col nazismo, e che dunque i filosofi si fossero distinti, rifiutandolo in toto. Preso atto che così non fu, una volta divenuta professoressa si è chiesta se fosse giusto studiare quei filosofi che avevano contribuito all’affermazione intellettuale del nazismo, che avevano poi negato di avervi aderito, ma si erano addirittura rifiutati di condannare la Shoah. L’autrice lascia la risposta ai lettori, cui fornisce però tutti gli elementi per conoscere il passato di molti filosofi tedeschi, rimasto a lungo nell’ombra. Lo fa attraverso una serie di ritratti “caldi”, personali, in cui pone grande attenzione alle vicende biografiche e al contesto in cui ognuna delle figure trattate è nata e cresciuta. La scelta stilistica del docudrama non inficia l’attendibilità dei contenuti − frutto di ricerche evidentemente molto accurate e di un materiale, specie biografico, sconfinato − e offre la possibilità di raggiungere un pubblico ampio, rendendo più accessibili tanto gli uomini quanto le loro teorie.

L’intento è lodevole perché, se molto si è discusso e ricercato sull’apporto e sull’adesione al nazismo della popolazione tedesca, finora si sapeva meno di quella dei filosofi. Eppure si tratta di una questione fondamentale, data la centralità della filosofia nella cultura tedesca e, di conseguenza, dei filosofi nella società tedesca. Hitler ne fu cosciente fin dall’inizio, tanto da definirsi e voler apparire come “leader filosofo”. L’inizio del libro è incentrato proprio su questo aspetto. Se le note biografiche che ci restituiscono la figura di un giovane sgangherato, con una visione estremista e apocalittica della realtà, sono rintracciabili in molti altri testi che hanno tentato di comprendere infanzia e gioventù di Hitler, più interessante è la narrazione del periodo passato in carcere, inteso da Hitler stesso come fondamentale percorso di crescita, sia della sua figura di leader – la carcerazione gli diede popolarità, lo convinse di avere un certo ascendente e gli permise, attraverso il Mein Kampf, di idealizzare la sua persona e la sua vita − sia della sua formazione intellettuale. La Sherratt riporta nel dettaglio la serie di scritti razzisti e militaristici, intrisi di darwinismo sociale e antisemitismo, che saranno fondamentali per la formulazione di molte delle teorie naziste. Mostrando quanto alla fine della prima guerra mondiale queste idee permeassero il pensiero tedesco, I filosofi di Hitler combatte indirettamente l’idea della Shoah come incidente della storia, facendone invece il punto di arrivo di tendenze fortemente radicate nella cultura europea del tempo. Questo è certamente uno dei principali meriti del libro. Se, piuttosto sorprendentemente, Hitler si identificava anche con i grandi filosofi tedeschi, soprattutto Kant, Schiller ed Hegel, i principali riferimenti filosofici del nazionalsocialismo restano Fichte, Schopenhauer e Nietzsche. Di questi Hitler riprese alcune idee, scimmiottandole e distorcendole, tanto che l’autrice lo definisce un “mescitore di genio”, che prende ingredienti della cultura tedesca e li mescola per ottenere “un intruglio che tutti vogliono bere”.

Il libro si concentra poi sui filosofi che collaborarono attivamente all’ascesa del nazismo, che vi aderirono apertamente o che comunque lo legittimarono dal punto di vista intellettuale. Il riferimento è a figure come quella di Alfred Rosenberg, vero e proprio ideologo del nazismo, Alfred Baumler, che si occupò della formazione intellettuale del partito nazista, e Ernst Krieck, votatosi all’educazione dei giovani, cui si voleva inculcare l’obbedienza, sopprimendo ogni forma di individualismo e pensiero critico. Questi filosofi furono coinvolti fin dall’inizio nella missione di nazificazione delle università, uno dei temi più interessanti dell’intera opera. Cosciente del fatto che l’apparato amministrativo non era sufficiente, Hitler comprese di dover ottenere l’appoggio degli accademici per incidere sui valori, trasformare il sistema educativo e i programmi scolastici e orientare la ricerca accademica. Questa convinzione porterà all’espulsione dalle università del Reich di intellettuali come Husserl, all’eliminazione di pensatori ebrei come Mendelssohn e Spinoza dai programmi scolastici, al bando dei libri di autori ebrei, ecc. Il sistema educativo venne manipolato nel suo complesso attraverso la censura, i finanziamenti e l’individuazione di nuovi ambiti di ricerca, come quello della scienza della razza. In questo modo si giunse a produrre un nuovo corpus di teorie della razza che in maniera alquanto sorprendente attingeva tanto da Nietzsche e dal romanticismo quanto dal darwinismo sociale.

Il culmine della strategia hitleriana in tal senso fu l’appoggio di due intellettuali di fama internazionale, Carl Schmitt e Martin Heidegger. Il primo, che all’inizio era inorridito dall’ascesa del nazismo, vi si “convertì” nel 1933, quando già era un professore celebre e rispettato. Rivide dunque tutti i suoi scritti, aggiungendo elementi antisemiti e giungendo a giustificare il decreto dei pieni poteri e la notte dei lunghi coltelli. Divenne poi il principale consigliere giuridico di Hitler, che definì “giudice supremo della nazione e supremo legislatore”. Se Schmitt sancì la dittatura con l’autorità della legge, Heidegger lo fece con quella della filosofia. In effetti i filosofi nazisti erano celebri in patria ma non all’estero e i nazisti avevano bisogno del sostegno di un genio contemporaneo, universalmente riconosciuto. Iscrittosi al partito, Heidegger prese a elogiare il führer e il processo di nazificazione, che considerava compito fondamentale dell’università. Nominato rettore dell’università di Friburgo, collaborò attivamente all’epurazione dei non ariani dagli atenei, a quanto pare non tanto perché profondamente antisemita, quanto per ragioni d’opportunismo.

Dopo quelli che ispirarono Hitler e quelli che collaborarono con il nazismo, il libro si concentra sui filosofi che ne furono vittime, in quanto ebrei o oppositori del regime. Tra l’inverno del 1932 e la primavera 1933 molti intellettuali finirono nei campi di concentramento o lasciarono la Germania per sfuggire a tale sorte. È quanto tentò di fare anche Walter Benjamin, la cui tragica fine finì per combaciare con quella del fratello, oppositore politico che venne arrestato e internato in un campo di concentramento, dove fu torturato al punto da decidere di suicidarsi. Fermato sul suolo francese mentre cercava di fuggire in America e cosciente che sarebbe stato rimandato in Germania e internato, Walter prese la stessa decisione.

Meno drammatica la vicenda di Adorno, che è una storia di esilio, come quella di molti altri straordinari intellettuali dell’epoca costretti a lasciare la Germania: Reinhardt, Lang, Brecht, Mann, ecc. Nel narrare l’esperienza di Adorno, l’autrice ne riporta il pensiero, in particolar modo la convinzione che quanto stava accadendo rappresentasse il crollo di un tipo di cultura e che antisemitismo e anti-intellettualismo fossero strettamente legati, in quanto forme simili di pregiudizio, nate dalla reazione violenta del gruppo alla diversità. Segue il racconto delle più note vicende di Hannah Arendt, della sua relazione con Heidegger, dell’esperienza dell’internamento nel campo di Gurs e, soprattutto, della sua riscoperta dell’ebraismo e della conseguente esperienza di attivista nell’Unione Sionista per la Germania.

L’ultimo ritratto del libro è quello del martire, incarnato dal filosofo e musicologo Kurt Huber. Pur essendo conservatore, nazionalista e romantico, non cedette mai all’ideologia nazista, della quale divenne strenuo oppositore, in un contesto in cui gli intellettuali ebrei erano ormai senza voce e quelli tedeschi avevano aderito al regime o, nella migliore delle ipotesi, tacevano. Nella sua veste di accademico, Huber cominciò invece a invocare il rispetto dei diritti umani, non accettò di eliminare i filosofi ebrei dalle sue lezioni e disvelò le distorsioni dell’interpretazione nazista di molte opere filosofiche. La tragica svolta avvenne però con l’adesione al movimento clandestino della Rosa Bianca, a causa della quale venne arrestato il 26 febbraio 1943 e decapitato il 13 luglio dello stesso anno.

Eppure la parte più amara del racconto ha ancora da venire, è quella, conclusiva, del bilancio di quanto accaduto durante e dopo il processo di Norimberga. Gli intellettuali tedeschi spesso riuscirono a sfuggire alla giustizia o a insabbiare il loro passato;  anche quando furono giudicati collusi col nazismo, vennero rimossi dai loro incarichi ma poco dopo poterono riprendere le rispettive carriere. Già negli anni ’50 molti docenti che avevano aderito al regime tornarono a lavorare nelle facoltà tedesche e fino alla fine degli anni ’60 le loro cariche non vennero messe in discussione. Particolarmente significativi i casi di Schmitt − giudicato a Norimberga, ma poi rilasciato − che rimase celebre a vita e di Heidegger, che riuscì a farsi passare per semplice simpatizzante del nazismo, anche grazie al sostegno di Sartre e della Arendt.

Anche se l’autrice non mette in alcun modo in discussione il valore delle opere e la levatura del pensiero di questi intellettuali, al lettore resta la sensazione che questi abbiano fallito in quanto filosofi, poiché furono incapaci di trascendere il colpevole conformismo del loro tempo. 

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