Noi e loro. Il potere del nazionalismo etnico
di Jerry Muller

06/08/2014

Muller è professore di storia alla Catholic University of America; l’articolo è comparso su Foreign Affairs di marzo/aprile 2008

 

Proiettando la propria esperienza sul mondo, gli Americani normalmente trascurano il ruolo del nazionalismo etnico in politica. Negli Stati Uniti persone di varie origini etniche vivono pacificamente insieme. Dopo due o tre generazioni le differenze etniche si fanno tenui per effetto dell’assimilazione e dei matrimoni misti. Non può che avvenire così anche altrove.

Gli Americani trovano alquanto sgradevole il nazionalismo etnico, sia sul piano intellettuale che sul piano etico. Le scienze sociali fanno di tutto per dimostrare che non è un prodotto della natura ma della cultura, per lo più costruito mirando a uno scopo. E i moralisti denigrano i sistemi di valori basati sulle identità di gruppo anziché sul cosmopolitismo.

Ma il nazionalismo etnico non se andrà. Gli immigrati di solito arrivano negli USA ben decisi a integrarsi nel nuovo mondo e a rimodellare le proprie identità per riuscirci. Ma per le persone che rimangono nella terre dove i loro antenati hanno vissuto per secoli, l’identità politica assume spesso forma etnica e alimenta conflitti politici per il potere. La formazione di un pacifico ordine regionale fra stati nazionali è spesso il risultato di processi violenti di separazione etnica. Dove la separazione non è avvenuta, la politica tende a diventar cattiva.

La narrativa correntemente accettata della storia europea del XX secolo dice che il nazionalismo ha prodotto due grandi guerre, prima nel 1914 poi di nuovo nel 1939. Dopo di che, si dice, gli Europei conclusero che il nazionalismo è pericoloso e lo abbandonarono gradatamente. Nei decenni del dopoguerra i popoli dell’Europa occidentale si legarono fra di loro in una rete di istituzioni sovranazionali, culminata poi nell’Unione Europea. Alla caduta dell’Unione Sovietica, quella rete si estese a oriente per includere la maggior parte del continente. Gli Europei sono entrati in un’epoca post-nazionale che non soltanto è di per sé positiva, ma è anche un modello per altre parti del mondo. Il nazionalismo in questa visione è una tragica deviazione dal cammino verso un pacifico ordine democratico e liberale.

Questa narrativa è comunemente accettata dagli Europei colti e forse ancor più dagli Americani colti. Recentemente, per esempio, nel corso di un intervento volto a dimostrare che Israele dovrebbe rinunciare alla pretesa di essere lo stato ebraico per dissolversi invece in una entità bi-nazionale con i Palestinesi, Tony Judt ha detto ai lettori della New York Review of Books che “il problema di Israele … è che ha portato un progetto separatista del tardo XIX secolo in un mondo che nel frattempo è andato avanti, diventando un mondo di diritti personali, frontiere aperte e leggi internazionali. L’idea stessa di stato ebraico è un anacronismo”.

Tuttavia l’esperienza delle molte centinaia di Africani e Asiatici che ogni anno muoiono in mare cercando di raggiungere le coste dell’Italia o della Spagna rivela che le frontiere europee non sono tanto aperte. E una semplice indagine mostra che, se nel 1900 c’erano ancora in Europa molti stati plurinazionali, nel 2007 ne erano rimasti soltanto due, uno dei quali, il Belgio, è sempre a rischio di frattura. A parte la Svizzera, dove l’equilibrio etnico interno è protetto da leggi molto rigorose sul diritto di cittadinanza, il progetto separatista in Europa non soltanto non è sparito, ma ha trionfato.

Ben lontano dal divenire obsoleto, il nazionalismo etnico raggiunse il suo apogeo proprio dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1945. La stabilità europea durante la Guerra fredda fu in parte dovuta alla piena realizzazione del progetto etno-nazionalista. E dopo la fine della Guerra fredda il nazionalismo etnico ha continuato a rimodellare i confini europei.

In breve, nella storia moderna il nazionalismo etnico ha svolto un ruolo più incisivo e più duraturo di quanto si creda e gli stessi processi che hanno portato al prevalere dello stato nazione e della separazione delle etnie in Europa si ripresenteranno probabilmente altrove. L’urbanizzazione accelerata, l’alfabetizzazione e la mobilitazione politica, le differenze nei tassi di fertilità e di crescita economica dei diversi gruppi etnici, nonché l’immigrazione, metteranno a dura prova sia le strutture interne degli stati sia i loro confini esterni. Indipendentemente dal fatto che sia politicamente corretto oppure no, il nazionalismo etnico continuerà a modellare il mondo nel XXI secolo.

 

La politica identitaria

Esistono due modi per descrivere l’identità nazionale. Per l’uno la popolazione che vive all’interno dei confini nazionali è parte della nazione, indipendentemente dall’origine etnica, razziale o religiosa. Questo nazionalismo civico o liberale è quello in cui si identifica oggi la maggior parte degli Americani. Questa visione liberale entra spesso in competizione con l’altra, quella del nazionalismo etnico, e talora si dimostra perdente. L’idea centrale del nazionalismo etnico è che le nazioni sono definite da un’eredità storica condivisa, che include la stessa lingua, la stessa religione e antenati comuni.

Il concetto etnico di nazione ha dominato tradizionalmente la maggior parte d’Europa e si è affermata anche negli Stati Uniti fino in epoche recenti. Per lunghi periodi nella storia degli Stati Uniti si pensò che soltanto le persone di origine inglese, o soltanto i protestanti, o i bianchi o gli immigrati di origine europea fossero Americani veri. Soltanto nel 1965 la riforma della legge sull’immigrazione ha abolito il sistema delle quote nazionali in vigore da molti decenni negli USA. Questo sistema aveva completamente escluso gli asiatici e aveva fortemente limitato l’immigrazione dall’Europa orientale e meridionale.

Il nazionalismo etnico trae molto del suo vigore dall’idea che i membri di una nazione fanno parte di una famiglia estesa, unita da vincoli di sangue. È la fede nella realtà di un “noi” comune che conta. Le caratteristiche che distinguono i membri del gruppo variano di caso in caso e di tempo in tempo, e la natura soggettiva dei confini comuni ha indotto alcuni a sottovalutarne il valore pratico. Ma, come sottolinea Walker Connor, accorto studioso dei nazionalismi, “ad aver peso nei comportamenti non è la realtà effettiva, ma quello che le persone credono sia la realtà”. I principi della fede nel nazionalismo etnico sono che le nazioni esistono e che gli stati dovrebbero essere nazionali.

La narrativa convenzionale della storia europea dice che il nazionalismo fu originariamente liberale nella parte occidentale del continente e divenne etnicamente orientato nel trasferimento in oriente. C’è una parte di verità in questo, ma anche una parte di inganno. È più accurato dire che, quando iniziarono a formarsi gli stati moderni, nelle aree lungo la costa atlantica d’Europa i confini politici e quelli etno-linguistici già coincidevano ampiamente. Il liberalismo nazionale emerse principalmente negli stati che già avevano un alto grado di omogeneità etnica. Molto prima del XIX secolo paesi come l’Inghilterra, la Francia, il Portogallo, la Spagna e la Svezia emersero come stati nazionali all’interno di entità politiche in cui le differenze etniche erano già state smussate da una lunga storia di omogeneizzazione culturale e sociale.

Nella parte centrale del Continente, dove abitavano popolazioni germaniche e italiche, c’erano entità politiche frammentate in centinaia di particelle. Ma nel corso dei decenni 1860 e 1870 la frammentazione fu superata e sorsero l’Italia, dove viveva la maggioranza degli Italiani, e la Germania, dove viveva la maggior parte dei Tedeschi.

Più a est ci fu una situazione diversa. Fino al 1914 la maggior parte dell’Europa centrale, orientale e sudorientale non era organizzata in stati nazionali ma in imperi. L’Impero Asburgico comprendeva l’attuale Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia, una parte della Bosnia, la Croazia, la Polonia, la Romania, l’Ucraina e alcune altre regioni. L’impero dei Romanov si estendeva in Asia e comprendeva l’attuale Russia, una parte della Polonia, dell’Ucraina e altre regioni. L’Impero Ottomano comprendeva la Turchia e parte dell’attuale Bulgaria, della Grecia, della Romania e della Serbia, e si estendeva anche in Medio Oriente e in Africa.

Ogni impero era composto da molti gruppi etnici, ma non era multinazionale nel senso di garantire un status di uguaglianza ai diversi gruppi di persone che ne costituivano la popolazione. La monarchia al potere e la nobiltà terriera spesso parlavano una lingua diversa e avevano origini diverse dalla borghesia mercantile cittadina, che a sua volta differiva dalla classe contadina per lingua, etnia e – spesso − religione. Nell’Impero Austro-ungarico e nell’impero Romanov, ad esempio, i mercanti erano spesso Tedeschi o Ebrei. Nell’Impero Ottomano erano Armeni, Greci o Ebrei. In ogni impero anche i contadini appartenevano a etnie diverse.

Fino a tutto il XIX secolo queste società rimasero in larga parte agricole: la maggior parte delle persone viveva in campagna e pochi sapevano leggere. La stratificazione politica, etnica ed economica era per lo più correlata all’etnia e le persone non si aspettavano di cambiare la propria posizione all’interno del sistema. Fino al sorgere del nazionalismo moderno questa non sembrava una situazione problematica. In questo tipo di mondo le persone appartenenti a una particolare religione, lingua o cultura erano spesso sparse in diversi stati e diversi imperi. I Tedeschi, ad esempio, non vivevano soltanto nelle regioni che poi formarono la Germania, ma anche all’interno degli imperi Austroungarico e Romanov. C’erano Greci in Grecia, ma ce n’erano milioni anche nell’Impero Ottomano (per non parlare delle centinaia di migliaia di Turchi musulmani in Grecia). E vi erano Ebrei ovunque – senza nessuno stato proprio.

 

Il sorgere dell’etnonazionalismo

Oggi tendiamo a dare per scontato che gli stati nazionali siano la forma naturale di associazione politica e consideriamo gli imperi un’anomalia. Ma attraverso tutte le epoche storiche è vero esattamente l’opposto. La maggior parte delle persone nella maggior parte della storia sono vissute sotto qualche impero e gli stati nazionali sono sempre stati l’eccezione piuttosto che la regola. Che cosa ha portato al cambiamento?

La crescita del nazionalismo etnico, come il sociologo Ernest Gellner ha spiegato, non è stato uno strano errore storico; è il risultato di alcune delle correnti più profonde della modernità. La competizione militare fra gli stati creò la necessità di sempre maggiori risorse e dunque di una crescita economica costante. La crescita economica dipendeva a sua volta dall’educazione di massa e dalla facilità di comunicazione, portando a politiche di educazione comune in una lingua comune, che subito alimentarono conflitti sia sulla lingua sia sull’accesso alle opportunità.

Le società moderne si basano sulla premessa egualitaria che chiunque può aspirare a qualsiasi posizione economica. Ma in pratica le probabilità di salire la scala sociale non sono uguali per tutti, non semplicemente perché gli individui hanno diverse capacità innate. L’avanzata sociale dipende da quello che gli economisti chiamano “il capitale culturale”, ovvero le capacità e i parametri comportamentali che portano i gruppi e gli individui di avere successo. Gruppi tradizionalmente letterati e dediti al commercio tendono a eccellere, per esempio, mentre altri tendono a rimanere indietro.

Quando i gruppi che provenivano da una tradizione contadina, come i Cechi, i Polacchi, gli Slovacchi e gli Ucraini, si spostarono in città nel corso del XIX e all’inizio del XX secolo per ottenere un’educazione superiore, trovarono i ruoli chiave nel governo e nell’economia già occupati – per lo più da Armeni, Tedeschi, Greci o Ebrei. I gruppi che parlavano una stessa lingua iniziarono a pensare di appartenere allo stesso ceto e di auto-definirsi per contrasto con gli altri gruppi. Finirono col richiedere uno stato nazionale proprio, in cui fossero loro i padroni e potessero ricoprire ruoli dirigenziali in politica, nella burocrazia e nel controllo del commercio.

Il nazionalismo etnico ha anche una base psicologica oltre a quella economica. Con la creazione di nuovi rapporti diretti fra le singole persone e il governo, lo stato moderno indebolì i legami tradizionali degli individui con i gruppi sociali intermedi quali la famiglia, il clan, la ghilda e la chiesa. Lo sviluppo di economie di mercato ebbe effetti analoghi, incitando la mobilità sociale e territoriale e la mentalità individualistica. Ne è risultato un vuoto emotivo spesso riempito da nuove forme di identità, per lo più legate all’etnia.

L’ideologia del nazionalismo etnico volle la coincidenza fra lo stato e la nazione intesa come etnia, con risultati esplosivi. Come riconobbe Lord Acton nel 1862: “Se stato e nazione coincidono a livello teorico, [il nazionalismo] riduce in condizione di sudditanza tutte le altre nazionalità all’interno dei confini. […] Quindi, in base al grado di umanità e di civiltà del gruppo dominante che reclama tutti i diritti di gruppo, le razze minoritarie vengono sterminate, o ridotte in schiavitù, o messe fuori legge o poste in condizione di dipendenza”. Ed è esattamente quello che è successo.

 

La grande trasformazione

I liberali del XIX secolo, come molti sostenitori dell’attuale globalizzazione, credevano che la crescita del commercio internazionale avrebbe spinto le popolazioni a considerare i benefici che portavano pace e commercio, sia sul piano interno che nei rapporti con l’esterno. I socialisti erano d’accordo, sebbene pensassero che l’armonia sarebbe giunta solo con l’arrivo del socialismo. Ma la storia del XX secolo non seguì questo corso. Il processo per ‘far coincidere stato e nazione’ assunse diverse forme, dall’emigrazione volontaria (spesso motivata dalla discriminazione degli stati nei confronti delle minoranze etniche) alla deportazione forzata (o ‘trasferimento di popolazione’) e al genocidio. Il temine ‘pulizia etnica’ è entrato recentemente nella lingua inglese, ma i suoi corrispettivi in ceco, francese, tedesco e polacco risalgono a molto tempo prima. La maggior parte della storia del XX secolo in Europa infatti è stata un doloroso lungo processo di disaggregazione etnica.

La disaggregazione iniziò in modo massiccio alla periferia d’Europa. Nei Balcani, etnicamente misti, le guerre per la creazione degli stati nazionali di Bulgaria, Grecia e Serbia a spese del debole Impero Ottomano, furono accompagnate da una feroce violenza inter-etnica. Durante la guerra dei Balcani del 1912-13 quasi mezzo milione di persone lasciò la propria terra, volontariamente o a forza. I musulmani abbandonarono le regioni controllate da Bulgari, Greci e Serbi; i Bulgari abbandonarono la parte di Macedonia controllata dai Greci; i Greci scapparono dalla parte di Macedonia lasciata ai Bulgari e ai Serbi.

La Prima guerra mondiale portò allo sgretolamento dei tre grandi imperi, scatenando l’esplosione del nazionalismo etnico. Nell’Impero Ottomano, le deportazioni di massa e gli assassinii negli anni di guerra portarono alla morte di un milione di membri della minoranza armena − il primo tentativo di ‘pulizia etnica’ o di genocidio. Nel 1919 il governo greco invase l’area dell’attuale Turchia per preparare la nascita di una ‘grande Grecia’ che includesse Costantinopoli. Sull’onda dei successi iniziali le forze greche devastarono e bruciarono i villaggi per cacciare dalla regione l’etnia turca. Ma le forze turche alla fine si compattarono e respinsero l’esercito greco, avviando la pulizia etnica contro i Greci che incontravano sul cammino. Il processo di trasferimento della popolazione venne formalizzato nel 1923 con il trattato di Losanna: tutti i Greci per etnia dovevano trasferirsi in Grecia, ma i musulmani della Grecia dovevano trasferirsi in Turchia. Alla fine la Turchia espulse circa un milione e mezzo di persone, la Grecia circa quattrocentomila.

Dalle ceneri dell’Impero Asburgico e dell’Impero Romanov emerse una moltitudine di nuovi stati. Molti si concepirono come stati etnici, in cui lo stato svolgeva la funzione di proteggere e promuovere il gruppo etnico dominante. Tuttavia su una popolazione di circa 60 milioni di persone in Europa centrale e orientale, 25 milioni continuarono a costituire minoranze etniche dei paesi in cui vivevano. Nella maggior parte dei casi le etnie di maggioranza non tentarono di favorire l’assimilazione delle minoranze – né le minoranze stesse erano bramose di integrarsi. I governi nazionalisti perseguirono politiche apertamente discriminatorie a favore della comunità dominante. Le attività pubbliche furono condotte esclusivamente nella lingua della maggioranza e gli impieghi pubblici furono riservati a chi la parlava.

Nella maggior parte dell’Europa orientale e occidentale gli Ebrei avevano svolto un ruolo importante nei commerci e negli scambi. Quando ottennero i diritti civili nel XIX secolo, rapidamente eccelsero nelle professioni che richiedevano più studio, come medicina e legge, e presto quasi metà dei medici e degli avvocati in città come Budapest, Vienna o Varsavia erano ebrei o di discendenza ebraica. Negli anni ’30 molti governi presero provvedimenti per cercar di arrestare i progressi degli Ebrei, ad esempio negando loro finanziamenti e limitando l’accesso all’educazione superiore. In altre parole, i nazionalsocialisti che salirono al potere nel 1933 in Germania basando il loro movimento sul concetto di ‘Germanismo’ contrapposto a quello di ‘Ebraismo’ erano una versione estrema di un comune atteggiamento etnonazionalista.

La politica etnonazionalista si fece ancor più funesta durante la Seconda guerra mondiale. Il regime nazista cercò di riordinare a forza la mappa etnica del continente. L’atto più radicale fu il tentativo di eliminare gli Ebrei dall’Europa uccidendoli tutti – il che riuscì in larga parte. I nazisti si servirono anche delle minoranze tedesche in Cecoslovacchia, in Polonia e altrove per imporre la dominazione nazista, e molti regimi alleati con la Germania condussero campagne proprie contro nemici etnici interni. Il regime rumeno ad esempio uccise centinaia di migliaia di Ebrei di propria iniziativa, non su ordine dei Tedeschi, mentre la Croazia uccise non soltanto i suoi Ebrei, ma anche centinaia di migliaia di Serbi e di Rom.

 

Dopoguerra non significa post-nazionale

Ci si aspettava che le politiche omicide del regime nazista e la sua disastrosa sconfitta segnassero la fine all’era del nazionalismo etnico. In realtà prepararono la possibilità di un altro ciclo di massicce trasformazioni etnonazionaliste. L’assetto politico dell’Europa centrale dopo la Prima guerra mondiale aveva spostato i confini per allinearli alla distribuzione delle popolazioni sul territorio. Dopo la Seconda guerra mondiale invece furono i popoli a spostarsi. Milioni di persone furono cacciate dalle proprie case e dai propri paesi, con il tacito assenso delle potenze vincitrici.

Winston Churchill, Franklin Roosevelt e Joseph Stalin arrivarono alla conclusione che espellere i Tedeschi dagli stati non-tedeschi era il necessario requisito di un ordine postbellico stabile. Churchill così si espresse nel dicembre del 1944 parlando al Parlamento britannico: “Per quanto abbiamo potuto constatare, l’espulsione è il metodo più soddisfacente e più duraturo. Non ci saranno miscugli di popolazioni che potrebbero causare problemi senza fine. […] Bisogna far piazza pulita. Non sono preoccupato dalla prospettiva che vengano districare fra di loro le diverse popolazioni, né dai trasferimenti di massa”. Citò il trattato di Losanna come precedente, per dimostrare che anche i leader delle democrazie liberali erano giunti alla conclusione che soltanto misure radicalmente illiberali avrebbero potuto eliminare le cause delle aspirazioni e delle aggressioni etnonazionalistiche.

Fra il 1944 e il 1945 cinque milioni di Tedeschi fuggirono dalla parte orientale del Reich per scampare all’arrivo dell’Armata Rossa, che avanzava energicamente verso Berlino compiendo stupri e massacri. Quindi fra il 1945 e il 1947 i regimi del dopoguerra in Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria e Jugoslavia espulsero altri sette milioni di Tedeschi per aver collaborato con i nazisti. Queste misure nel loro insieme costituirono il maggiore trasferimento forzato di popolazioni nella storia d’Europa, facendo centinaia di migliaia di morti lungo la via.

Quei pochi Ebrei che sopravvissero alla guerra e tornarono nelle loro case in Europa orientale trovarono un tale antisemitismo che la maggior parte decise di andarsene definitivamente. Circa 220000 raggiunsero le zone della Germania occupate dagli Americani, da cui partirono per lo più verso Israele e gli USA. Così gli Ebrei scomparvero dall’Europa centrale e orientale, che era stata il centro della vita ebraica sin dal XVI secolo.

Milioni di profughi appartenenti ad altri gruppi etnici furono cacciati dalle loro case e trasferiti altrove dopo la guerra. Questo fu in parte dovuto al fatto che i confini dell’Unione Sovietica si spostarono verso ovest in territori precedentemente polacchi, mentre le frontiere della Polonia si spostarono verso ovest in territori precedentemente tedeschi. Per far corrispondere la popolazione ai nuovi confini, un milione e mezzo di Polacchi che vivevano nelle aree sovietiche furono deportati in Polonia e 500000 Ucraini che vivevano in Polonia furono spediti nella nuova Repubblica Sovietica dell’Ucraina. Vi furono altri scambi di popolazioni fra la Cecoslovacchia e l’Ungheria, gli Slovacchi vennero espulsi dall’Ungheria e i Magiari furono cacciati dalla Cecoslovacchia. Altri Magiari furono trasferiti dalla Jugoslavia in Ungheria, mentre i Serbi e i Croati si trasferirono in senso opposto.

In seguito a questo processo di disaggregazione ebbe ampia realizzazione l’ideale del nazionalismo etnico: quasi ogni nazione in Europa aveva il suo stato e quasi ogni stato era composto all’incirca di una singola etnia. Durante la Guerra fredda le uniche eccezioni rimaste erano la Cecoslovacchia, l’Unione Sovietica e la Jugoslavia. Ma la sorte successiva di questi stati dimostra la persistente vitalità del nazionalismo etnico. Alla caduta del comunismo la Germania Est e la Germania Ovest si riunificarono velocemente, la Cecoslovacchia si divise in modo pacifico in due entità, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, l’Unione Sovietica si dissolse in una serie di diverse entità nazionali. Da allora le minoranze etniche russe ancora presenti nelle altre repubbliche post-sovietiche sono per lo più emigrate in Russia, i Magiari della Romania sono emigrati in Ungheria e i pochi Tedeschi che si trovavano in Russia sono emigrati in Germania. Un milione di persone di origine ebraica si sono trasferiti dall’ex URSS in Israele. La Jugoslavia ha visto la secessione della Croazia e della Slovenia dalla Serbia ed è precipitata nel magma dei conflitti etnici in Bosnia e in Kosovo.

La disintegrazione della Jugoslavia è stato l’ultimo atto di un lunghissimo spettacolo la cui trama – la disaggregazione delle popolazioni e il trionfo del nazionalismo etnico nell’Europa moderna – viene raramente riconosciuta. Perciò una storia di importanza paragonabile alla diffusione della democrazia o del capitalismo rimane quasi del tutto sconosciuta.

 

Decolonizzazione e sue conseguenze

Gli effetti del nazionalismo etnico naturalmente non sono rimasti confinati alla sola Europa. Per la maggior parte del mondo in via di sviluppo la decolonizzazione ha significato disaggregazione etnica attraverso lo scambio o l’espulsione delle minoranze locali.

La fine del Raj Britannico nel 1947 portò alla divisione del subcontinente fra India e Pakistan, accompagnata da un’ondata di violenza che causò centinaia di migliaia di vittime. Quindici milioni di persone divennero profughi, compresi i musulmani che andarono in Pakistan e gli Indù che si spostarono in India. Poi nel 1971 anche il Pakistan, originariamente unificato su base religiosa, si spaccò in due: il Pakistan di lingua urdu e il Bangladesh di lingua bengalese.

Nell’ex mandato britannico di Palestina nel 1948 venne creato uno stato ebraico, subito accolto dalla rivolta della popolazione araba indigena e invaso dagli stati arabi circostanti. Alla fine della guerra le aree in mano araba furono ‘ripulite’ dalla popolazione ebraica e gli Arabi rimasti nelle aree controllate dagli Ebrei si trasferirono o furono cacciati. Circa 750000 arabi se ne andarono, principalmente negli stati arabi circostanti, i circa 150000 che rimasero costituirono circa un sesto della popolazione del nuovo stato. Negli anni successivi la violenza nazionalista degli stati arabi spinse circa 500 mila Ebrei a lasciare le loro patrie d’origine per trasferirsi in Israele. Allo stesso modo nel 1962 la fine del controllo francese sull’Algeria costrinse all’emigrazione gli Algerini di origine europea (i cosiddetti pied-noirs), che per lo più emigrarono in Francia. Poco dopo le minoranze etniche di origine asiatica dell’Uganda furono cacciate dal paese. Ma l’eredità del periodo coloniale non è ancora terminata. Quando gli imperi europei d’oltreoceano si dissolsero, rimase un insieme di stati dai confini incerti che spesso non coincidevano con l’etnia delle popolazioni o che avevano popolazioni etnicamente miste. È soltanto un pio desiderio pensare che i confini di questi stati rimarranno stabili. Appena le società del mondo ex coloniale si modernizzano e diventano urbane, alfabetizzate e politicamente attive, gli stessi meccanismi che portarono al sorgere del nazionalismo etnico e alla disaggregazione delle etnie in Europa si mettono in gioco anche in quelle regioni.

 

Il bilancio

Gli studiosi della disaggregazione etnica si concentrano ovviamente sugli effetti negativi, data l’enorme quantità di umana sofferenza che generano. Ma ne consegue una visione distorta, che non tiene conto né dei costi nascosti né dei benefici che la separazione etnica ha portato.

Gli economisti da Adam Smith in poi sostengono che l’efficienza dei mercati competitivi aumenta con l’aumento delle dimensioni dei mercati stessi. La dissoluzione dell’Impero Austro-ungarico in piccoli stati, ognuno con le proprie barriere commerciali, creò una situazione economicamente irrazionale, contribuendo ai problemi regionali nel periodo fra le due guerre. Buona parte della storia europea successiva è stata caratterizzata da diversi tentativi per superare questa frammentazione economica, tentativi culminati nella nascita dell’Unione Europea.

La disaggregazione etnica sembra avere ripercussioni deleterie anche sulla vitalità culturale. Proprio perché la maggior parte dei cittadini condivide un patrimonio linguistico e culturale comune, gli stati omogenei dell’Europa del dopoguerra sono culturalmente più provinciali di quelli etnicamente misti dell’epoca precedente. Con pochi Ebrei in Europa e pochi Tedeschi a Praga, pochi diventano Franz Kafka.

Le migrazioni forzate generalmente penalizzano gli stati che espellono e premiano quelli che accolgono. L’espulsione nasce spesso dal risentimento della maggioranza nei confronti dei successi di una minoranza, basata sulla falsa assunzione che il successo sia un gioco a somma algebrica zero (se hai più successo tu, ne tocca meno a me). Ma i paesi che si sono sbarazzati degli Armeni, dei Tedeschi, dei Greci, degli Ebrei e di altre minoranze si sono sbarazzati anche dei loro cittadini di maggiore talento, che hanno portato il loro talento e le loro abilità altrove. In molti paesi il trionfo della politica etnonazionalista ha coinciso con la vittoria dei gruppi rurali su quelli urbani in possesso di qualità preziose per un’economia industriale avanzata.

Il nazionalismo etnico ha spesso portato a tensioni e conflitti, ma è anche una fonte certa di stabilità e coesione. Quando i libri di testo francesi iniziavano con “i Galli, nostri antenati” o Churchill parlava durante la guerra a “questa razza isolana”, facevano appello a sentimenti etnonazionalisti come fonte di fiducia reciproca e spirito di sacrificio. La democrazia liberale e l’omogeneità etnica non soltanto sono compatibili, ma possono essere complementari.

Si potrebbe dire che l’Europa vive in armonia dalla Seconda guerra mondiale non a causa del fallimento del nazionalismo etnico, ma proprio per il suo successo, che ha eliminato alcune grandi fonti di conflitto sia all’interno degli stati, sia fra stati diversi. Il fatto che i confini politici e quelli etnici oggi largamente coincidano ha comportato la riduzione delle dispute di confine e delle dispute con le minoranze, dando forma alla configurazione territoriale più stabile dell’intera storia europea.

Queste entità politiche etnicamente omogenee hanno anche mostrato grande capacità di solidarietà interna e facilitato i programmi di governo, inclusi quelli per la redistribuzione della ricchezza. Il politologo Sheri Berman ha notato che, quando i socialdemocratici svedesi svilupparono il più ampio piano di welfare mai visto in Europa, lo pensarono e lo spiegarono come la costruzione del ‘folkhemmet’, ovvero ‘la casa per il popolo’.

Decenni di vita stati consolidati ed etnicamente omogenei possono aver ridotto la forza emotiva del nazionalismo etnico. Molti Europei oggi sono pronti, talora con genuino entusiasmo, a far parte di un organismo transnazionale come l’Unione Europea, anche perché la loro necessità di autodeterminazione di gruppo è in larga parte soddisfatta.

 

Un nuovo rimescolamento etnico

Negli ultimi due secoli accanto al processo di disaggregazione etnica forzata c’è stato un processo di rimescolamento etnico dovuto a migrazioni volontarie. Lo schema prevalente è stata l’emigrazione da aree povere e stagnanti verso aree più ricche e più dinamiche. In Europa questo ha significato un movimento prevalentemente verso nord e verso ovest, soprattutto verso la Francia e il Regno Unito. Questo continua tuttora: a seguito di recenti spostamenti migratori ad esempio in Gran Bretagna vivono circa mezzo milione di Polacchi e in Irlanda circa 200000. Gli immigrati che si sono trasferiti da una parte all’altra d’Europa per rimanervi si sono in larga parte assimilati e non creano problemi significativi, nonostante le battute sull’invasione degli idraulici polacchi.

La trasformazione più drammatica dell’equilibrio etnico europeo negli scorsi decenni è dovuta all’immigrazione di persone provenienti dall’Asia, dall’Africa e dal Medio Oriente, con risultati molto variabili. Alcuni gruppi hanno raggiunto un successo tangibile, come gli Indiani indù che si sono trasferiti nel Regno Unito. Ma in Belgio, Francia, Germania, Olanda, Svezia e Regno Unito il progresso economico e culturale degli immigrati musulmani è stato mediamente limitato e le loro alienazione culturale è grande.

È difficile determinare quanto il problema sia dovuto alla discriminazione, quanto agli schemi culturali degli immigranti stessi e quanto alle politiche dei governi europei. Ma un certo numero di fattori, dal multiculturalismo ufficiale alla generosità dello stato sociale e alla facilità di contatti con la terra d’origine ha portato alla creazione di isole etniche poco portate all’assimilazione in un più vasto mondo culturale ed economico.

Di conseguenza i contorni tradizionali della politica europea si sono deformati. La sinistra, ad esempio, tende ad accogliere l’immigrazione nel nome dell’egualitarismo e del multiculturalismo. Ma se è vero che c’è un collegamento fra l’omogeneità etnica e la disponibilità ad accettare generosi programmi di redistribuzione della ricchezza, l’incoraggiamento di una società più eterogenea potrebbe minare la stessa agenda politica della sinistra. Alcune tendenze culturali libertarie d’Europa si sono già scontrate con quelle illiberali di alcune comunità di nuovi immigrati.

Se gli immigrati musulmani non si assimilassero ma sviluppassero invece un’identificazione comune su base religiosa, in alcuni stati potrebbe risvegliarsi l’identità tradizionale etnonazionalista – o potrebbe svilupparsi una nuova identità europea definita in opposizione all’Islam (e un’ampia opposizione all’accettazione della Turchia come membro di diritto dell’Unione Europea potrebbe esserne conseguenza accessoria).

 

Implicazioni future

Poiché il nazionalismo etnico è una conseguenza diretta di alcuni elementi chiave della modernizzazione, è probabile che prenda piede in quelle società che stanno attraversando tale processo. Non ci deve sorprendere quindi che rimanga una delle forze più vitali – e più dirompenti – in molte aree del mondo contemporaneo.

Forme più o meni subdole di nazionalismo etnico esistono nella politica dell’immigrazione in ogni parte del mondo. Molti paesi – inclusi l’Armenia, la Bulgaria, la Croazia, la Finlandia, la Germania, l’Ungheria, l’Irlanda, Israele, la Serbia e la Turchia – danno la cittadinanza automaticamente, o quantomeno velocemente, ai membri della diaspora della propria etnia di maggioranza, qualora la richiedano. La legge cinese sull’immigrazione dà la priorità e garantisce benefici ai Cinesi che vivono all’estero. Il Portogallo e la Spagna hanno delle politiche che favoriscono chi arriva dalle loro ex colonie del Nuovo Mondo. Altri stati, come il Giappone e la Slovacchia, offrono certificati ufficiali di identità ai membri dell’etnia di maggioranza che non sono loro cittadini, per permettere loro di vivere e lavorare all’interno del paese. Gli Americani, abituati a pratiche ufficiali di governo che considerano qualunque trattamento differenziato su base etnica come una violazione di norme universali – considerano tali politiche eccezionali, se non addirittura abominevoli. Ma in un contesto globale è l’insistere su criteri universalistici a sembrare un atteggiamento provinciale.

La crescita di una coscienza comune e lo spostamento degli equilibri etnici nei prossimi anni avranno certamente diverse ripercussioni, sia all’interno dei singoli stati sia nei rapporti internazionali. Mano a mano che la globalizzazione inserisce più stati nell’economia mondiale, ad esempio, i primi effetti di questo processo probabilmente andranno a beneficio di quei gruppi etnici meglio posizionati per storia e cultura a trarre vantaggi dalle nuove opportunità di arricchimento, aumentando le fratture sociali anziché colmare le differenze. Le regioni più ricche e con maggiori possibilità di crescita potrebbero cercare di separarsi da quelle più povere e con minori possibilità, e alcune aree omogenee distinte potrebbero cercare di diventare indipendenti, provocando violente reazioni dai difensori dello status quo.

Naturalmente ci sono società multietniche in cui la coscienza etnica rimane debole e anche se si rafforzasse non porterebbe a rivendicazioni di sovranità. A volte le richieste di maggiore autonomia o autodeterminazione su base locale possono essere accettate all’interno della struttura dello stato. Le rivendicazioni dei Catalani in Spagna, dei Fiamminghi in Belgio, degli Scozzesi in Gran Bretagna sono state gestite all’interno, sin ad ora. Ma sono situazioni precarie, soggette a continui negoziati. Nel mondo in via di sviluppo, dove gli stati sono più giovani e spesso i confini dividono una stessa etnia, probabilmente sorgeranno conflittuali civili di disaggregazione etnica. Studiosi come Chaim Kaufmann hanno dimostrato che quando l’antagonismo supera un certo livello di violenza non è più possibile mantenere i vari gruppi sotto lo stesso governo.

Questa cruda realtà crea dilemmi per i sostenitori degli interventi umanitari in tali conflitti, perché mantenere la pace fra gruppi che nutrono paura e odio reciproco richiede missioni militari lunghe e costose, quelle temporanee non bastano. Inoltre quando la violenza raggiunge il livello della pulizia etnica il ritorno in massa dei profughi dopo il cessate-il-fuoco è molto difficile, spesso non auspicabile, perché pone le premesse per una successiva esplosione di violenza. La partizione potrebbe quindi essere la soluzione umanitaria più duratura dei conflitti più intensi. Inevitabilmente crea nuovi flussi di profughi, ma almeno affronta il problema alla radice. La sfida della comunità internazionale in questi casi consiste nel separare i gruppi nel modo più civile possibile, ad esempio organizzando i trasporti, garantendo i diritti di cittadinanza in una nuova patria e fornendo aiuti finanziari per l’insediamento e l’integrazione economica. Il prezzo da pagare è alto, ma non superiore al costo del mantenimento di truppe militari sufficienti a pacificare le fazioni etniche rivali, né al costo morale di non intervenire.

I sociologi contemporanei che scrivono di nazionalismo tendono a sottolineare la natura contingente dell’identità di gruppo – quanto la coscienza nazionale sia culturalmente e politicamente influenzata dalle ideologie e dai politici. Ricorrono abitualmente al concetto di Benedict Anderson di ‘comunità immaginarie’, come se dimostrare che il nazionalismo è una costruzione artificiale ne facesse sparire la potenza. Certamente l’identità etnonazionale non è mai naturale e ineluttabile come asseriscono i nazionalisti. Tuttavia è un errore pensare che il nazionalismo sia fragile e malleabile a piacere perché è in larga parte costruito. Il nazionalismo etnico non è stata una deviazione occasionale nella storia europea: corrisponde a tendenze durature dello spirito umano, acuite dal processo di creazione dello stato moderno, è fonte profonda sia di solidarietà sia di inimicizia e, in un modo o nell’altro, continuerà a esistere per generazioni. Conviene quindi trattarlo in modo serio.

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