Il linguaggio
delle ideologie assassine

02/05/2014

 

La lingua è la madre, non l’ancella del pensiero” sostiene Karl Kraus, scrittore di lingua tedesca vissuto a cavallo fra l’‘800 e il ‘900. Nessuno riesce a pensare concetti per cui non esistono parole o numeri.

Inoltre, la lingua offre e impone all’individuo strutture di ragionamento attraverso la grammatica, la sintassi e l’uso dei verbi e fa riferimento a un sistema di miti, di storie e di valori comuni al gruppo dei parlanti che conferisce alle parole un significato e un tono emotivo particolare che è il marchio di identificazione del gruppo ed è anche la chiave della comunicazione. La parola sacrificio, ad esempio, è percepita in modo non identico in culture diverse, così come libertà, ciclicità, patria. Diversa è la carica emotiva e simbolica della parola che indica la ‘patria’, terra di padri cui si deve obbedienza, se la si chiama ‘motherland’ (terra madre), cui si è legati visceralmente, oppure ‘heimat’ (in tedesco) o ‘homeland’ (in inglese) – ovvero casa, luogo da custodire e nutrire costantemente. Ben diversa è l’idea della terra natia per i nomadi che hanno per riferimento il cielo e i membri del clan. O si pensi alla diversa connotazione valoriale ed emotiva della parola ‘vino’ per noi, che usiamo il vino anche nei riti sacri, e per i mussulmani, che rifuggono l’alcool e lo demonizzano.

Le dittature forzano il linguaggio per diffondere il proprio sistema di valori. Ogni ideologia si appropria del discorso comune, distorcendo il significato originario delle parole, che così assumono un valore e una connotazione emotiva diversa. Attraverso la ripetizione costante, il nuovo significato viene imposto alle masse. Il tutto avviene gradualmente, con un processo che pare naturale e inarrestabile a coloro che lo subiscono e che comporta la conversione della lingua all’ideologia del potere.

Scrive Klemperer, filologo ebreo di Dresda che negli anni del nazismo osservò e studiò la formazione di una nuova lingua del potere, da lui definita LTI (Lingua Tertii Imperii):

«Il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettata meccanicamente e inconsciamente.

[…] Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei.

[…] Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».

In seguito a un articolo dello scrittore toscano Bruno Cicognani, che entusiasmò il duce, il fascismo proibì l’uso del ‘lei’, considerato ‘residuo del servilismo italiano verso gli invasori stranieri ed espressione di snobismo borghese’ e impose l’uso del voi’. Mussolini impose anche l’uso del termine camerata’ – che significa compagno d’armi – per instillare il senso del rapporto sociale desiderato dal regime.

I comunisti diedero connotazioni morali nuove a termini come compagno e proletario oppure borghesee capitalista’, creando attorno ad essi emozioni particolari che persistono tuttora.

Particolarmente efficace fu l’ingegneria linguistica del nazismo, che impiegò e fuse insieme linguaggi estranei fra loro: quello della salvezza e della redenzione, per presentare Hitler come l’inviato della provvidenza per la salvezza del popolo, quello della malattia e della parassitologia per sviluppare la repulsione verso le future vittime e quello della tecnologia potente ma asettica per esaltare la violenza, nascondendone gli effetti sui corpi e sulle emozioni umane. Il linguaggio tecnico nascondeva ogni orrore sotto l’innocuità della pianificazione e dell’uso di macchine o strutture efficienti ben sincronizzate.

Questo è il progetto del campo di sterminio di Treblinka con la stazione ferroviaria, lo spogliatoio collegato da un corridoio alla camera a gas, l’orto e le piante decorative nella zona per i soldati tedeschi. Soltanto il fatto che nel campo di lavoro non ci fossero fabbriche ma soltanto la piazza di arrivo e smistamento dei prigionieri e il campo della morte, con molte fosse comuni per le ceneri, rivela lo scopo del progetto.

«Il linguaggio deve esser considerato un modo di agire, e non la semplice autenticazione del pensiero», spiega l’antropologo Malinowski nel suo studio sull’influenza del linguaggio sul pensiero, la violenza linguistica non è innocua: è un’aggressione morale e civile che può rapidamente trasformarsi in aggressività fisica. Non bisogna mai prendere alla leggera l’incitamento all’odio e alla strage: prima o poi alle parole seguono le azioni. Spesso la violenza fisica diviene l’‘inevitabile’ fase conclusiva di un processo costruito attraverso il linguaggio e la propaganda, come avvenne in Ruanda nel 1994. Scrive Henry Huttenbach: «Senza una lingua tedesca nazificata, il progetto mortale dei nazisti tedeschi sarebbe stato molto più difficile da realizzare, se non impossibile».

Nelle ideologie assassine, la propaganda ha un duplice scopo: disumanizzare le future vittime ma anche il futuri carnefici. Si tratta di un processo graduale in cui si possono identificare diverse fasi. Il primo passo è costituito dalla riduzione degli individui a parti indistinte di un gruppo, di una collettività. I futuri carnefici vengono educati a pensare e sentire di aver valore e diritti in quanto parte di una comunità, di un gruppo, di una stirpe o nazione, non in quanto individui dotati di responsabilità e di autonomia. Dunque ogni individuo non è una persona a sé, ma parte di ‘noi’. Questo dà all’individuo un senso di protezione e di appartenenza che ne ottunde il senso di responsabilità. Non a caso, le prime parole chiave del nazismo furono volk’ (cioè popolo, inteso come etnia) e gemeinshaft’ (comunità) e quella del comunismo fu proletari’. La lingua ideologica del potere cerca di «privare il singolo della sua natura di individuo, di anestetizzare la sua personalità, renderlo elemento del gregge senza pensiero né ‘volontà’», in modo che sia «spinto con violenza verso una direzione», […] «insegna i mezzi per rendere fanatici e per suggestionare le masse» (Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina).

Anche le future vittime sono descritte sempre con caratteristiche stereotipate, mai come singole persone, ciascuna diversa dalle altre. Ogni vittima non è una persona a sé, ma l’archetipo di ‘loro’. Così spiega Alain Finkielkraut il meccanismo psicologico che permise lo sterminio dei kulaki: «Gli attivisti che perpetrarono il massacro (dei Kulaki) non erano di per sé scellerati o criminali. Erano idealisti. […] Abitavano un mondo allegorico, un universo popolato solamente da forme: il kulak, l’operaio, il borghese, l’aristocratico, il contadino povero. […] Per loro gli archetipi erano più reali degli individui […], la divisione del mondo in due entità contrapposte più vera della varietà delle situazioni e della diversità degli uomini».

La classificazione ideologica delle persone in “noi” e “loro” crea identità polarizzate e costruisce una separazione netta tra il gruppo dei futuri assassini e quello delle future vittime. La propaganda procede poi a costruire l’immagine di ‘noi’ – buoni e belli –, in opposizione a ‘loro’ – cattivi e brutti –, in base a un’equazione costante tra fattezze fisiche e caratteristiche morali, ripetuta attraverso migliaia di immagini, instillata già nei bambini. Ciò fu particolarmente evidente nella propaganda di Hitler contro gli ebrei. Osservò Klemperer : «Con la massima rozzezza [Hitler] identifica l’ebreo in assoluto con l’immagine dell’ambulante galiziano, con la medesima rozzezza svillaneggia per il suo aspetto l’ebreo che indossa il caffetano bisunto e addossa al ‘popolo ebraico’, innalzato a figura allegorica, la somma di tutte le immoralità di cui egli si scandalizza».

Si giunge così alla terza fase del progetto assassino, che consiste nel costruire la profonda convinzione che ‘noi’ – i buoni, la maggioranza – siamo in pericolo, dobbiamo difenderci, perché ‘loro’ stanno per attaccarci, ci hanno già attaccato. Nel 1933 i giornali filo-nazisti accusavano gli ebrei di aver dichiarato guerra alla Germania. Loro sostiene la propaganda che prepara l’eccidio ci hanno tradito, cospirano contro di noi. Non lo sostenevano soltanto i nazisti nei confronti degli ebrei, lo sostenevano i turchi che stavano preparando il genocidio armeno del 1914. Così incitavano il proprio gruppo a organizzarsi in difesa.

Prepararsi all’attacco contro il ‘nemico comune’ forgia l’identità del gruppo di maggioranza come forza pronta a combattere la minaccia che incombe. In realtà è il gruppo stesso che sta per attaccare e uccidere il presunto nemico. Diceva esplicitamente il dittatore cambogiano Pol Pot nel marzo del 1975: «‘reazionari borghesi’, compresi donne, vecchi e bambini sono nemici della Cambogia. Gli unici cambogiani che hanno diritto a vivere sono i contadini, mentre intellettuali, insegnanti, religiosi, impiegati, artigiani e commercianti, in quanto appartenenti al vecchio regime e quindi potenziali nemici del nuovo comunismo- agricolo vanno liquidati».

In questa manifestazione contro i kulaki, imposta ai bambini, i cartelli recitano: «Uniti nella lotta contro i distruttori dell’agricoltura» e «Elimineremo i kulaki come classe», che è anche lo slogan di questo manifesto.

Nel discorso tenuto a Poznam il 4 ottobre 1943 agli ufficiali delle SS che avevano diretto la strage di ebrei in Polonia, Himler disse: «Abbiamo il diritto morale – avevamo il dovere nei confronti del nostro popolo – di uccidere questo popolo che ci avrebbe ucciso. Abbiamo svolto questo difficilissimo compito per amore del nostro popolo. E non ne abbiamo derivato nessun difetto d’animo né di carattere… ». Ovviamente la convinzione di non aver difetti né d’animo né di carattere ma soltanto amore per il popolo, pur sparando in testa a centinaia di migliaia di persone inermi, è un altro prodotto linguistico. Dicendolo e ridicendolo gli assassini si convincevano di essere spiriti nobili proprio perché assassini.

Per spiegare la necessità di uccidere persone evidentemente inermi, come misura di difesa, le ideologie assassine presentano il gruppo delle future vittime come portatore di contagio, creano l’ossessione del contagio. Infatti bacilli e parassiti sono piccoli e paiono inermi ma sono pericolosissimi.

Gli assassini impiegano consapevolmente termini e immagini che fanno leva sulla paura del contagio per scatenare il ribrezzo verso le future vittime, che saranno sterminate perché nocive. «Non vogliamo, dopo tutto ciò, ammalarci e morire dello stesso bacillo che abbiamo sterminato. (…) Non vedrò mai accadere che la putrefazione ci contamini, o metta radice in noi.» disse Himler alle SS, lodandoli per aver fatto strage di ebrei non per rubare e arricchirsi, ma per ‘amore del popolo’.

Le SS vedevano e facevano questo, nella realtà, ma la loro mente pensava a bacilli, parassiti, insetti, funghi velenosi, serpenti, mostri, perché l’ideologia assassina che distorceva il valore delle parole, usandole fuori contesto, aveva distorto anche la loro capacità di percezione e di pensiero.

È avvenuto più volte nel corso della storia. Nel 1915, il regime dei Giovani Turchi definì il genocidio degli Armeni l’eliminazione di pericolosi microbi dal corpo politico. Pochi anni dopo Lenin sosteneva la necessità di una guerra di sterminio per «ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo, delle pulci: i furfanti; delle cimici: i ricchi». Ottenuto il potere, istituzionalizzò il terrorismo di stato per «purificare la Russia sul campo», «sterminare implacabilmente i nemici della libertà». Già nel 1918 apostrofava i kulaki (contadini che erano anche piccoli proprietari terrieri) con espressioni qualiragni velenosi‘sanguisughe. Il regime li farà morire di fame a milioni nell’inverno 1932/33 dopo aver confiscato tutto il cibo e aver chiuso le frontiere regionali.

Stalin definì purghe le deportazioni di intere popolazioni in Siberia. Durante la Rivoluzione culturale cinese negli anni ‘60, gli intellettuali non venivano mai nominati dalle autorità senza l’accompagnamento dell’aggettivo puzzolente e venivano definiti ratti che corrono per le strade’: da eliminare. Non si sa ancora quanti milioni furono uccisi nei campi di lavoro.

Il regime dei Khmer Rossi in Cambogia, nel 1975, definiva microbi’, ‘parassiti’, ‘vermi’, e ‘cancro’ le vittime dei suoi assassinii di massa.

Negli anni ‘90 in Ruanda la radio Hutu usò il termine scarafaggi’ (inyenzi) per incitare all’assassinio di massa dei Tutsi a colpi di machete. Ecco gli incitamenti che la radio del partito di maggioranza trasmetteva costantemente: «Oggi è domenica 19 giugno 1994, sono le 16.22 a Kigali, nel blindato della RTLM. Avviso a tutti gli ‘scarafaggi’ che ci ascoltano. Il Ruanda appartiene a quelli che lo difendono davvero e voi, ‘scarafaggi’, non siete Ruandesi. Ora tutti si sono alzati per combattere questi ‘scarafaggi’: i militari, i giovani, i vecchi e persino le donne. Gli ‘scarafaggi’ non avranno scampo».

Se l’assassinio di massa è costantemente presentato come l’eliminazione dei parassiti dal corpo sociale, fatta con tecnologie efficienti, persone ‘per bene’ diventano assassine, considerando sé stessi come ingranaggio di una organizzazione tecnica ben sincronizzata.

Scrisse Klemperer: «La meccanizzazione inequivocabile della persona rimane riservata alla LTI, la cui creazione più caratteristica […] in questo campo è il verbo ‘gleichschalten’ [sincronizzare, livellare, uniformare]. Par di vedere e di sentire il pulsante che fa assumere a persone […] posizioni e movimenti automatici uniformi».  «Ora non veniamo più paragonati a macchine, siamo noi stessi macchine. […] il predicatore Goebbels, il padrone del linguaggio non paragona sé e tutti i suoi fidi a macchine, no, vi si identifica. Impossibile concepire una mentalità più disumanizzata di quella che qui si rivela».

Vediamo qualche esempio di come si come si nasconde la realtà attraverso l’uso di un linguaggio che la rappresenta in modo radicalmente diverso da quella che è.

Il 5 giugno 1942 un funzionario tecnico scrisse una relazione all’ufficio Affari Segreti del Reich, il cui testo compare nel film ‘Shoah’ di Claude Lanzmann. Riguarda le modifiche da apportare ai veicoli speciali in servizio a Kulmhof e a quelli in costruzione, cioè ai camion a gas, sperimentati dai tedeschi a Chelmno, in Polonia, per ammazzare gli ebrei con più efficienza.

«Dal mese di dicembre 1941 novantasettemila sono stati trattati dai tre veicoli in servizio senza incidenti degni di nota. Tuttavia, tenuto conto delle osservazioni fatte fin qui, si rendono necessarie le seguenti modifiche tecniche:

I - Il carico normale dei camion è generalmente di nove o dieci per metro quadro. Nei mezzi Saurer, che sono molto voluminosi, non è possibile l’utilizzazione totale dello spazio, non a causa di un eventuale sovraccarico, ma perché il carico alla capacità massima avrebbe delle ripercussioni sulla tenuta di strada del veicolo. Sembra quindi necessaria una diminuzione dello spazio di carico. Si dovrebbe assolutamente ridurre questo spazio di un metro, invece di cercare di risolvere il problema, come si è fatto finora, diminuendo il numero dei pezzi da caricare.

Quest’ultimo procedimento ha lo svantaggio di richiedere un tempo di funzionamento più lungo, poiché lo spazio vuoto deve ugualmente essere riempito di ossido di carbonio. Per contro, se si diminuisce lo spazio di carico, pur caricando al massimo il veicolo, il tempo di funzionamento può essere notevolmente ridotto. I costruttori del mezzo ci hanno detto, nel corso di una conversazione, che la riduzione della parte posteriore del camion provocherebbe un pericoloso squilibrio. L’avantreno, essi affermano, sarebbe infatti sovraccarico. Ma in realtà l’equilibrio si ristabilisce naturalmente per il fatto che la merce caricata, durante il funzionamento, mostra una tendenza naturale a pigiarsi verso gli sportelli posteriori, e alla fine dell’operazione si trova coricata soprattutto in quel punto. Così non si produce nessun sovraccarico dell’avantreno.

II - Occorre proteggere l’impianto di illuminazione interna più di quanto sia stato fatto finora. Delle griglie di ferro devono circondare le lampadine per evitare che vengano danneggiate. La pratica ha dimostrato che si potrebbe fare a meno delle lampadine, in quanto queste non sono apparentemente mai utilizzate. Tuttavia si è potuto notare che al momento della chiusura degli sportelli il carico preme sempre fortemente verso questi appena sopraggiunge l’oscurità. Ciò risulta dal fatto che il carico si precipita naturalmente verso la luce quando viene il buio, il che rende difficile la chiusura degli sportelli.

Inoltre si è potuto notare che a causa del carattere inquietante dell’oscurità le grida scoppiano sempre al momento della chiusura degli sportelli. Sarebbe dunque opportuno accendere le luci prima e durante i primi minuti di funzionamento.

III - Per una pulizia agevole del veicolo si deve praticare al centro del pianale un foro di svuotamento a tenuta stagna. Il coperchio del foro, di un diametro di circa 200 a 300 mm, sarà munito di un sifone inclinato, in modo che i liquidi possano già disperdersi durante il funzionamento. Al momento della pulizia il foro di svuotamento servirà allo scarico dei rifiuti solidi».

 

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