La crisi russa del 1998
e Putin

07/02/2014

Ricordare le condizioni che portarono Putin a prendere il potere ed esercitarlo in modo autoritario è utile per capire le conseguenze di periodi di grave instabilità economica, che non vengano governati con prontezza e determinazione. 

Nel 1997 la crisi finanziaria che aveva colpito l'Asia iniziò a diffondersi al resto del mondo. La Russia stava ancora affrontando le difficoltà politiche, sociali, economiche e finanziarie conseguenti al crollo dell'URSS. Industria e servizi erano allo sfascio, i capitali fuggivano all'estero. Il prezzo dell'unica fonte di introiti rimasta alla Russia – l'energia – scendeva drasticamente.

Nel 1998 i tassi di interesse sul rublo subirono un'impennata. Il Cremlino tentò di arginare la svalutazione del rublo ricorrendo all’ancoraggio semi-rigido al dollaro: la Banca Centrale russa avrebbe dovuto mantenere il tasso di cambio rublo-dollaro entro una fascia di oscillazione determinata. Quando il rublo scendeva troppo, la Banca Centrale interveniva per fermare la discesa, ad esempio vendendo riserve di valuta estera accumulate vendendo gas. Presto il Cremlino esaurì le riserve di liquidità, mentre il prezzo dell'energia continuava a diminuire. Nell'agosto 1998 il Cremlino non era più in grado di mantenere il tasso di cambio semi-rigido e ufficializzò una massiccia svalutazione (grafico in alto). La Borsa di Mosca perse il 75%. Il governo russo non pagò i 40 miliardi di dollari di debito pubblico dovuti sul mercato interno.  

I Russi videro tutti i loro risparmi andare in fumo. L'inflazione raggiunse l'84% (grafico a fianco), il prezzo del cibo aumentò del 100%. La maggior parte degli stipendi non vennero più pagati. La crisi gettò nella povertà circa 43 milioni di persone, ovvero il 30% della popolazione.

La produzione industriale era già scesa del 60% tra il 1992 e il 1998 (a titolo di paragone, negli USA durante la Grande Depressione il crollo fu del 47%). Anche il settore agricolo era in caduta libera – la produzione era calata del 50% rispetto al 1992 – perché le riforme si facevano attendere e mancavano investimenti nelle attrezzature e nei fertilizzanti. Alcune regioni furono colpite da gravi carestie.

Nell'ottobre 1998 la gente scese in piazza. Gran parte delle amministrazioni locali si dissociarono dalle strategie proposte dal Cremlino per arginare la crisi e iniziarono a difendere soltanto i propri interessi. Nelle regioni di Kemerovo, in Tatarstan e nell'Altai, i governatori vietarono l'esportazione di cibo verso altre regioni, violando la legge federale. A Vladivostok si razionarono alcuni beni di prima necessità, si trattennero cibo e medicine in città a scapito delle campagne. In alcune regioni i governatori imposero prezzi politici, violando la legge federale. Molti governatori locali smisero di pagare le tasse al governo federale. Il governo di Nizhny Novgorod scelse di non pagare i salari dei dipendenti pubblici, così i municipi ed altri enti regionali chiusero. Alcuni governi locali requisirono le aziende; quello di Rostov prese il controllo della Rostelmash, impresa produttrice di attrezzature agricole, mentre quello della Baschiria si impossessò di tutte le centrali elettriche del territorio. Molte amministrazioni locali aprirono piccole banche per sostituire il sistema di banche federali ormai al collasso. Le regioni rifiutarono di collaborare fra loro; ad esempio, la banca Severnaya Kazna di Ekaterinburg rifiutò di scambiare denaro con la moscovita Inkombank. Molti governi regionali chiesero aiuto finanziario dall'estero, violando la legge federale dell'epoca. San Pietroburgo e Novgorod, tra gli altri, vendettero parti del loro territorio e altri beni in loro possesso a investitori stranieri. Le repubbliche di Tatarstan, Komi e Sakha si indebitarono direttamente con la Société Générale e la Schweizerischer Bankverein.

A fine 1998 il governo federale non aveva più il minimo controllo sui governi locali. Il ministero della giustizia riferì che due-terzi degli enti locali avevano approvato misure, procedure o leggi anticostituzionali. Questo clima di anarchia contribuì all'ascesa di Putin. A luglio 1998 il presidente Boris Yeltsin nominò Putin capo dei Servizi di Sicurezza Federali, poi lo incaricò di riportare all'ordine i territori ribelli.

Il piano di Putin era semplice: epurare chi aveva violato la legge e usare l'esercito in caso di resistenza. L'esercito venne mobilitato in tutta la Russia, per far capire ai governatori locali che il nuovo governo non andava sfidato. A inizio del 1999, 46 degli allora 89 governi locali firmarono accordi con il Cremlino, rinunciando a parte della loro sovranità. Un terzo dei governatori, che allora erano eletti direttamente, diedero le dimissioni, molti altri finirono in prigione. La ri-centralizzazione sotto il controllo del Cremlino si intensificò quando Putin divenne presidente. Putin abolì l'elezione diretta dei governatori, al che il suo partito divenne maggioritario ovunque. La ri-centralizzazione voluta da Putin non riguardava soltanto le amministrazioni locali, ma l'economia, la politica, la sicurezza di tutta la nazione. Dal 2000 in poi la ripresa economica globale garantì alla Russia un decennio di relativa stabilità.

Ma la crisi globale degli ultimi anni sta creando di nuovo difficoltà di bilancio ad alcuni governi locali, e in alcune regioni si avvertono segni di irrequietezza. Nella mappa a sinistra si possono vedere le regioni più in difficoltà. Non c’è da preoccuparsi: il debito nazionale della Russia nel suo insieme è pari al 14 % del PIL, un’inezia. Però il debito degli enti locali è raddoppiato nell’arco di un anno, mentre l’impegno della Russia per sostenere finanziariamente i paesi europei ai propri confini, onde evitare che si associno all’Unione Europea, aumenta costantemente.

La Russia è attualmente composta di 83 regioni o unità federali, di diversa dimensione e con caratteristiche diverse: oltre alle repubbliche vere e proprie ci sono singole città federate e territori definiti Oblast, Krais, Okrugs autonomi. 

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