Gli ebrei come capro espiatorio della peste del 1348
L'eccezione italiana

21/11/2013

MANDIS, Francesco. ‘Gli ebrei come capro espiatorio della peste del 1348. L’eccezione italiana’. Ebrei migranti: le voci della diaspora, a cura di Raniero Speelman, Monica Jansen e Silvia Gaiga. ITALIANISTICA ULTRAIECTINA 7. Utrecht: Igitur Publishing, 2012. ISBN 978-90-6701-032-0.

RIASSUNTO

Il 1348 ha segnato la memoria colletiva dell’Europa in seguito alla diffusione della peste nera. La pandemia per la quale non esisteva all’epoca alcun rimedio attraversò in modo molto rapido tutto il continente Europeo da Sud a Nord seminando morte e desolazione sul suo passaggio e suscitando sgomento e sconcerto tra i sopravissuti. Assai rapidamente, si cercarono di capire le ragioni del flagello; cronisti e autori celebri, Boccaccio incluso, evocano l’origine divina del fenomeno : la pestis (il male peggiore) è il supplizio inviato da Dio per punire gli uomini dei loro peccati. I sopravvissuti cercarono inoltre delle soluzioni per arginare il morbo. La medicina dell’epoca giunse rapidamente al limite delle sue possibilità e non fece altro, alla fine, che accelerare il decorso della malattia e la propagazione del morbo. Movimenti popolari di espiazione e di purificazione dell’anima sorsero un po’ ovunque (i Flagellanti in particolare) portandosi dietro una scia di violenza legata alla volontà di trovare una soluzione attraverso la designazione e il sacrificio di un capro espiatorio. Numerosi cronisti raccontano come da subito in molte città d’Europa le comunità ebraiche vennero perseguitate  e decimate in seguito all’accusa di ‘untura’ . I casi più eclatanti si manifestarono a Barcellona, Lerida ma anche a Strasburgo, Colonia, Stoccarda ecc. I roghi e le vittime si contavano a migliaia. Di questo fenomeno non si trova stranamente traccia nelle città della penisola italiana: né negli scritti dei cronisti e neppure negli annali. Un fenomeno quindi in controcorrente rispetto a quanto avveniva nel resto d’Europa. Ho cercato di analizzare le cause di questa ‘eccezione italiana’ concentrando le mie ricerche sull’area umbro?toscana e partendo da alcune testimonianze maggiori: Giovanni e Matteo Villani, Agnolo di Tura e due figure maggiori della letteratura italiana, quali Franco Sacchetti e Giovanni Boccaccio.

 

GLI EBREI COME CAPRO ESPIATORIO DELLA PESTE DEL 1348

L’ECCEZIONE ITALIANA

Francesco Mandis

 

Université de Provence

 

Attilio Milano, nella sua opera più nota e più importante, Storia degli ebrei in Italia, evoca il massacro delle comunità ebraiche perpetrato in moltissime regioni europee  in seguito alla peste del 1348. Lo storico fa anche notare come nella penisola italiana simili espressioni di violenza non abbiano avuto luogo, ascrivendo infine questa eccezione al “naturale equilibrio della popolazione (italiana) e all’intervento della Chiesa”.1

Partendo da questa osservazione di Milano che pur riconosce che “il contagio aveva fatto (in Italia) altrettante vittime che nel resto dell’Europa”,2 mi è sembrato interessante approfondire alcuni aspetti del rapporto tra gli ebrei e le popolazioni autoctone in alcune regioni italiane, più rappresentative di questa eccezione ora evocata.

Mi sono quindi occupato più da vicino dell’area toscana e umbra nelle quali durante questi anni si andavano creando e consolidando delle oligarchie in mano ai mercanti.

Dopo una rapida contestualizzazione sulla peste e sulla presenza ebraica in Italia intorno agli anni 1348 osserveremo più da vicino alcune tra le cronache più importanti del XIV secolo e l’opera di alcuni autori maggiori, quali il Boccaccio e Franco Sacchetti, che agli ebrei hanno dedicato alcune pagine delle loro opere rispettive.

Senza entrare in merito al dibattito riguardo alle origini dell’antisemitismo, è utile ricordare in preambolo che la presenza ebraica nella Penisola e più in generale  in Europa sembra ascritta, fin dalle sue origini, a un duplice statuto: di integrazione in seno alle comunità autoctone ma anche di rigetto e talvolta di estrema ostilità da parte di esse.

Una tendenza che, secondo gli storici, trae le sue origini nella rottura tra la prima comunità cristiana e gli ebrei, concettualizzata in particolare per primo da San Paolo e si protrae nei secoli fino al medioevo. Durante tutti questi secoli infatti viene ribadita dal clero la necessità della presenza degli ebrei tra i cristiani, da una parte, ma dall’altra si ribadisce costantemente la necessità di controllarne e talvolta impedirne lo sviluppo. Una condizione esistenziale per gli ebrei quindi di costante instabilità.3

Quando nel 1347 la peste arriva sulle coste dell’Europa continentale le comunità ebraiche sono numerose e radicate in moltissime regioni d’Europa eppure sempre assoggettate a questo duplice statuto, in bilico tra tolleranza e ostilità.

Senza soffermarsi sulle origini, l’evoluzione e soprattutto le conseguenze sulla demografia, indotte dal passaggio della peste nera (la bibliografia sul tema è piuttosto abbondante, basterà citare solo alcuni autori principali: Delumeau, Biraben, ma anche lo stesso Milano),4 è utile però ricordare che dopo lo sgomento iniziale provocato dall’improvvisa ecatombe dalle dimensioni bibliche, alla quale del resto la peste veniva ricollegata,5 nasce il bisogno di opporvisi. Si organizzano processioni, esposizioni di reliquie, consacrazioni e combustioni di ceri.6 Ma soprattutto si assiste alla nascita di numerose manifestazioni di origine popolare che si organizzano e via via si radicalizzano fino ad approdare all’isteria collettiva e alla violenza. Una violenza rivolta in un primo tempo contro il proprio corpo (espiare per esorcizzare il male) ma che ben presto si trasferisce su quei corpi sociali e fisici considerati da sempre come non totalmente conformi, in bilico tra tolleranza e ostilità come  si diceva: gli ebrei e in diversa misura i lebbrosi.

È a Tolone per la prima volta, tra il 13 e il 14 aprile 1348, che una quarantina di ebrei vengono riconosciuti responsabili della pandemia e trucidati senza esitazione. Si trattò con molta probabilità della maggior parte della comunità ebraica della città. Ma a partire dal mese di maggio le spoliazioni e le angherie si moltiplicano: a Manosque in Provenza, ma anche a Apt, Forcalquier, a Aix en Provence gli ebrei vengono privati dei loro beni; a Narbona e a Carcassonne gli abitanti ebrei vengono massacrati, lo stesso avviene in Catalogna e in Aragona.

La lista è lunghissima e gli studi sul massacro degli ebrei durante la peste nera sono stati l’oggetto di ricerche approfondite da parte dei maggiori specialisti: Jules Issac,7  o ancora di Poliakov8  o dello stesso Attilio Milano, per citare i più noti.

In questo contesto di estrema violenza a nulla, o quasi, servirono le bolle pontificali di Clemente VI del 26 settembre 1348 e quella dell’anno successivo che condannavano con vigore i massacri di ebrei presi come capro espiatorio dalla furia popolare.

Questi episodi di violenza in effetti sono alimentati da passioni più che da un calcolo o un piano prestabilito e sembra quantomai legittima la riflessione di Marcel Simon che afferma:

le véritable antisémitisme est populaire : animosité des masses contre ceux qui ne vivent pas comme tout le monde. Il est passion et non véritable doctrine.9

Passione e non dottrina appunto.

Un ultimo punto sul quale ci sembra importante soffermarci in questo preambolo è il fatto che la peste nera non può essere annoverata come una fra le  tante occasioni in cui gli ebrei hanno dovuto subire violenze legate all’intolleranza. I fatti del 1348 sembrano infatti rappresentare piuttosto un “arrivo a maturazione di quello specifico fenomeno che rappresenta l’antisemitismo cristiano”10 per riprendere una definizione di Léon Poliakov. Cerchiamo di riprendere le tappe principali di tale maturazione.

Nel 1095 l’ingiunzione di Urbano II a tutti i cristiani di partire a combattere  gli infedeli in Terra Santa, viene spesso interpretata sul continente europeo come un nihil obstat per tutta la comunità cristiana a scagliarsi non solo contro i profanatori del Santo Sepolcro in Terra Santa ma contro tutti i negatori del Cristo e soprattutto quelli che si trovavano a portata di mano.

A questa prima fase dell’inasprimento delle relazioni tra cristiani ed ebrei ne succede una seconda, durante la grande carestia degli anni Venti del XIV secolo, emblematica per aver dato vita alla rivolta dei “Pastorelli” che radicalizza ancor di più il discorso antiebraico e la violenza rivolta su di loro. Un meccanismo che via via si consolida durante questi decenni e si diffonde fino a raggiungere il suo acme negli anni della peste nera a partire dal 1347 attraverso vari movimenti, ancora una volta  di iniziativa popolare, tra i quali il più noto è certamente quello dei “Flagellanti”.

Attraverso queste tappe, riassunte qui in modo schematico, si assiste a quella che Anna Foa ha voluto definire:

'la trasformazione dello stereotipo, una sua accentuazione negativa e l’insistenza su una sorta di naturale malvagità dell’ebreo'.11

Il passaggio insomma dall’antigiudaismo all’antisemitismo, la nascita e il consolidamento dell’ebreo come figura sacrificale, il consolidamento della figura del capro espiatorio per antonomasia.

A conferma di quanto detto basti pensare che l’odio dei “Flagellanti” per gli ebrei durante questi anni arrivò a un livello di violenza e di astrazione tali nei confronti degli ebrei che laddove questi venivano a mancare, fisicamente, si arrivava a sacrificare dei cristiani di sospetta origine ebraica al loro posto. Questo è per lo meno quanto riportano le cronache di Simon von Grünau.12

Alla data per noi fondamentale del 1348 insomma neanche il battesimo, come fino ad allora era stato possibile fare, bastava per salvare gli ebrei dal martirio.

Durante questi anni gli ebrei dovettero far fronte a un duplice flagello, quello naturale come il resto della popolazione, e quello provocato dalla follia umana, ben documentato come abbiamo avuto modo di vedere negli scritti dei cronisti e negli annali in quasi tutta l’Europa.

Di questa triste topologia però non si trova traccia o quasi nelle cronache, nelle gesta e negli altri documenti che concernono la penisola italiana, e ancor meno in quelli relativi all’area toscana e umbra. La ragioni a nostro avviso sono molteplici e legate a diversi fattori che cercheremo ora di mettere in luce.

Secondo lo storico Michele Luzzati13 le comunità ebraiche tra la fine del Duecento e gli inizi del Quattrocento si insediano in maniera stabile in tutta l’area centro settentrionale della Penisola sostituendo e sviluppando la vecchia rete di prestatori cristiani. Una dinamica di insediamento che va a controcorrente rispetto al resto dell’Europa.

In Italia, gli ebrei cominciarono a svolgere attività di feneratori su larga scala esattamente nei decenni in cui nell’Oltralpe il prestito ebraico veniva ridimensionato o addirittura cancellato (con   il   corollario   dell’espulsione   degli   ebrei),   come   nel   caso   dei   regni   di   Francia e d’Inghilterra.14

Seppure gli ebrei non fossero presenti in modo stabile da diverse generazioni, come in molte regioni della Francia o della Germania, la loro presenza e le loro attività commerciali fin dal dodicesimo secolo sono evidenti, grazie soprattutto ai viaggi e alle testimonianze del cronista Beniamino da Tudela.15

È chiaro quindi che una delle principali ragioni per cui nella penisola italiana non ci sono stati dei pogrom nei confronti degli ebrei va cercata nel relativo radicamento delle comunità ebraiche e nelle diverse dinamiche di insediamento di queste nelle zone geografiche di cui ci siamo occupati.

È altrettanto vero però che queste circostanze da sole non bastano a spiegare un atteggiamento diametralmente opposto da parte delle comunità autoctone nei confronti delle colonie ebraiche che si andavano via via consolidando. Una presa di posizione facilmente riscontrabile nelle cronache e nella produzione letteraria di quest’epoca, come avremo modo di vedere.

È utile ricordare inoltre che il numero ridotto di membri di una comunità ebraica, come quella di Tolone ad esempio, non bastò a evitar loro il sacrificio, e neanche la loro assenza impediva altrove di condannare e giustiziare “l’ebreo”, per contumacia come ricordato poc’anzi con riferimento ai testi di Simon von Grünau.

In tutta la penisola italiana e più particolarmente in quelle regioni in cui si andava creando o erano già solidamente stabilite delle comunità rette da oligarchie mercantili i cronisti, particolarmente prolifici, hanno registrato e raccontato i terribili giorni della peste nera. Autori come il lucchese Giovanni Sercambi, il senese Agnolo di Tura o ancora i fiorentini Matteo Villani, fratello del più celebre Giovanni, Marchionne di Coppo Stefani e Donato Velluti hanno riportato, talvolta con descrizioni lunghe, dettagliate e cariche di pathos i tristi giorni del 1348. Si pensi ad esempio alla Cronaca senese di Agnolo di Tura che racconta nei particolari l’arrivo della peste, la sua diffusione, aggiungendo alla dimensione universale del flagello la testimonianza della propria esperienza personale:

E io Agnolo di Tura detto il grasso, sotterrai 5 miei figliuoli co’ le mie mani; e anco fuoro di quelli che furono si mal cuperti di terra, che li cani ne trainavano e mangiavano di molti corpi, per la città.16

Le cronache trecentesche italiane a parte solo quelle di Giovanni Villani e di Dino Compagni, sono delle cronache comunali, locali, talvolta famigliari come appunto la Cronaca domestica del Velluti che si limitano quasi essenzialmente al racconto di quanto avviene nella stretta cerchia di influenza della comunità di appartenenza.

Queste cronache, ricchissime di dettagli sulla vita delle comunità comunali, non fanno alcuna allusione ad atti di violenza, individuale o collettiva, nei confronti degli ebrei. Si parla, come altrove in Europa, della peste o dello spettacolo atroce lasciato al suo passaggio, ma rarissime sono le allusioni agli ebrei. Una particolarità che lascia supporre che le ritorsioni nei loro confronti fossero inesistenti o per lo meno irrilevanti, non degne di nota.

Malgrado questo relativo silenzio delle cronache e degli annali è comunque possibile provare ad interpretare quali fossero i rapporti tra le comunità ebraiche e il resto della popolazione.

Una delle rare testimonianze dirette sugli ebrei, per gli anni intorno al 1348, ci è stata lasciata da Matteo Villani nelle pagine della Nuova Cronica. Nel libro IX, al capitolo CVII, l’autore racconta un episodio particolarmente violento avvenuto in Polonia nel 1350 in seguito appunto all’ondata di peste che investì il Paese e in seguito alla quale vennero trucidati un migliaio di ebrei. Un triste episodio di matrice popolare, riscontrabile anche in altre cronache. Nel suo racconto Matteo però non esprime nessun giudizio negativo nei confronti degli ebrei accusati di essere all’origine della diffusione del morbo. È stupito dell’accaduto, e ne approfitta per condannare non i presunti untori ma piuttosto il popolo persecutore che dà libero sfogo, “straboccatamente”, alla violenza:

'E in questi tempi occorse una cosa assai degna di nota, che in Pollonia nelle parti confinanti con le terre dell’Impero, essendo in esse grandissima quantità di Giudei, gli paesani cominciarono a mormorare dicendo che questa pestilenzia loro venia dagli Giudei. Onde gli Giudei temendo mandarono al Re de’ loro anziani e chiedendogli misericordia, e feciongli grandi doni di moneta e d’una corona di smisurata valuta. Lo Re conservare gli voleva, ma gli popoli furiosi non si poteano quietare, ma correndo straboccatamente tra i Giudei, e quali ultima consumatione, con ferro e con fuoco oltre a M Giudei spensono, e alla camera dello Re, tutti li loro beni furono incorporati'.17

Anche il fratello di Matteo, Giovanni Villani, autore più importante e iniziatore della Nuova Cronica,18 che proprio di peste nera morì nel 1348, esprime, seppur tra le righe, il proprio punto di vista sugli ebrei. Il punto di vista di un mercante italiano,  alquanto interessante per la nostra analisi.

Nella cronaca del Villani, non si fa generalmente uso del prisma dell’appartenenza religiosa quando si tratta di evocare una comunità ebraica, questa viene infatti annoverata tra la più larga categoria dei mercanti, una categoria per la quale Giovanni, naturalmente, manifesta un’evidente empatia. Alcuni episodi dell’opera villaniana, messi in rilievo da Colette Gros,19 mostrano più chiaramente questo atteggiamento del cronista nei confronti delle comunità ebraiche con le quali viene a contatto.

Durante la sua lunga esperienza in Francia, Giovanni Villani assiste alle ingiustizie che il re Filippo il Bello fa subire agli ebrei, intorno nei due decenni a cavallo tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, ed in particolare non può non essere al corrente della grande espulsione decretata dal sovrano nei loro confronti nel 1306. Questo episodio, però, non viene evocato nella cronaca del fiorentino. È necessario chiedersi il perché di tale omissione da parte del Villani, cronista noto proprio per la precisione e la registrazione dei fatti storici anche di minore rilievo.

Filippo il Bello è il bersaglio, in diverse occasioni, delle critiche del Villani a causa della sua cupidigia e delle conseguenze che ne risultano per i mercanti italiani, obbligati a più riprese ad abbandonare la Francia con l’accusa di praticare l’usura, salvo poi concedere loro un salvacondotto previo pagamento di una pesante sanzione. Il sovrano francese praticò vere e proprie estorsioni nei confronti dei “Lombardi” diverse volte, nel 1277, nel 1291, poi nel 1309 e nel 1311. Nella cronaca del Villani però sono menzionati solo i primi due episodi ed è a partire dal primo, quello del 1277, che il re di Francia viene ricordato quasi esclusivamente per la sua “cupidigia” che diventa così proverbiale, quasi emblematica e definitiva.

Se il Villani omette nella sua cronaca l’espulsione degli ebrei del 1306 è, verosimilmente, perché egli considera     questo episodio come l’ennesima manifestazione dell’avidità del sovrano, che per una volta opera non sui mercanti italiani ma su quelli ebrei. Il Villani quindi non legge l’episodio in una chiave culturale, antiebraica, non considera tanto la decisione del sovrano francese come un atto politico, quanto, piuttosto, come un attacco a spese di una comunità di mercanti volto unicamente ad alimentare le casse della corona in perenne difficoltà economica.

A conferma della mancanza di sentimenti antiebraici nel Villani possiamo ancora citare l’episodio del capitolo CXLII del libro VIII della Nuova Cronica in cui il cronista evoca il miracolo detto dell’ostia trafugata, che risale al 1290 e che secondo gli storici sarebbe proprio all’origine della cacciata degli ebrei nel 1306. Nell’episodio, il mercante ebreo che si impossessa dell’ostia trafugata appare come un personaggio più sprovveduto che malvagio, alle prese con un’ostia particolarmente recalcitrante che  sfugge  totalmente  al  suo  controllo  in  un  crescendo  che  in  un  altro contesto potrebbe addirittura essere comico.

Questo capitolo della Nuova Cronica sembra più che altro ricollegabile alla volontà del Villani di prendere parte attivamente alla promozione del nuovo dogma cattolico della Transustatazione che proprio in quegli anni si stava affermando. Un dogma al quale il cronista sembra particolarmente legato poiché viene evocato anche in altri capitoli della cronaca.

Anche in questo secondo episodio narrato dal Villani manca una qualsiasi condanna o allusione a sfondo antiebraico o antisemita e nel descrivere il turpe contratto che l’ebreo stipula con la donna è piuttosto su quest’ultima che il cronista pronuncia una condanna morale alla fine della storia. L’assenza di sentimenti di ostilità nei confronti delle comunità ebraiche nella Cronica dei Villani non è però un caso isolato.

Negli annali della città di Orvieto relativi alla metà del XIV secolo viene ricordato un altro episodio alquanto interessante. Si racconta infatti che nel 1359,  ossia undici anni dopo il passaggio della peste nera, dei prestatori ebrei stabiliti nella città fin dal XII secolo, reclamano ad alcuni eredi il rimborso di debiti contratti prima del 1349 da alcuni orvietani oramai defunti. Alcuni di questi debiti risultano però già rimborsati e le richieste dei prestatori sono quindi del tutto abusive.

Secondo la ricercatrice Elisabeth Carpentier20 che in un lavoro di ricerca ormai di riferimento ha studiato l’evoluzione della società di Orvieto, le autorità comunali decisero di intervenire stipulando che i prestatori ebrei non potessero esigere un rimborso  superiore  a  un  quarto  della  somma  dovuta  per  tutti  i  prestiti contratti prima del 1349. Una decisione, quindi, a tutela degli orvietani contro le derive dei prestatori ebrei. Gli orvietani però approfittando della decisione di  giustizia cercarono di estenderla anche ai prestiti contratti dopo il 1349. Ma anche questa seconda volta il comune intervenne ribadendo che la decisone riguardava esclusivamente i prestiti effettuati prima del 1349, una decisone, stavolta, a tutela degli interessi dei prestatori ebrei.21

Questo episodio è particolarmente interessante in quanto mostra come la tensione scaturita dagli interessi economici degli uni e degli altri viene risolta all’interno di un quadro strettamente istituzionale, organizzato intorno alle attività dei mercanti, alle cui decisioni i cristiani di Orvieto e i prestatori ebraici si sottomettono. Malgrado le tensioni, evidenti tra i due gruppi sociali, la dimensione culturale?religiosa degli ebrei non pesa sulle scelte delle autorità comunali e non vi è traccia di ritorsioni popolari nei loro confronti. In questi stessi anni altrove in Europa, e per ragioni molto meno gravi, talvolta solo sulla base di sospetti, si dava libero sfogo alla furia antiebraica.

Oltre alle testimonianze dirette sulle comunità ebraiche e sui loro rapporti con gli autoctoni, cioè gli annali, le cronache, le ricordanze famigliari di cui abbiamo appena parlato, vi sono altre testimonianze di natura diversa che ci sembra ora importante menzionare.

Quando si parla della peste del 1348 non si può non evocare Giovanni Boccaccio e il Decameron. Nell’opera ci sono due novelle che hanno come protagonisti principali due ebrei, entrambi mercanti ed entrambi presentati dall’autore con caratteristiche quantomeno positive. Si tratta della seconda e della terza novella della prima giornata, dove ritroviamo rispettivamente la storia di Abraam giudeo22 e di Melchisedech giudeo.23

Nella prima di queste due novelle un mercante italiano, Giannotto di Civignì, cerca di persuadere un ebreo, al quale è legato da “singulare amistà”, di convertirsi al cristianesimo e di farsi battezzare. Dopo alcune esitazioni Abraam decide di accettare la proposta dell’amico ma non prima di essersi recato a Roma per constatare di persona come vive il “vicario di Dio in terra e considerare i suoi modi e i suoi costumi”. Immaginando quel che Abraam avrebbe visto a Roma, Giannotto cerca di distoglierlo ma non vi riesce. Tornato a Parigi, malgrado il triste spettacolo a cui ha assistito e convinto della superiorità del cristianesimo sull’ebraismo, si converte e si  fa battezzare col nome di Giovanni.

Nella seconda novella, Melchisedech “che prestava a usura a Alessandria” viene descritto da Boccaccio come “valente uomo e savissimo e nelle cose di Dio” viene convocato da Saladino che vuole sapere quale delle tre religioni del libro sia quella “verace”. Dopo una breve riflessione Melchisedech racconta la famosa storia dei tre anelli, grazie alla quale riscuote l’ammirazione e la riconoscenza del sovrano che lo ricompensa con la sua amicizia, la ricchezza e gli onori.

In entrambe le novelle gli ebrei che il Boccaccio propone sono dotati di numerose caratteristiche positive. Si tratta di mercanti saggi e avveduti, il cui acume non fa dubbio, che agiscono con giudizio e perspicacia palesi. Due archetipi insomma di mercanti ideali, capaci di districarsi efficacemente anche in situazioni difficili, alla stregua di un Andreuccio da Perugia o di un Landolfo Rufolo. Il racconto dei tre anelli era già noto prima del Decameron, lo ritroviamo infatti già nel Novellino24 ma anche in opere meno note come il Fortunatus siculus di Bosone da Gubbio,25 in Boccaccio però ancor più che nelle due opere precedenti è particolarmente evidente  la volontà da parte dell’autore di mettere in valore le qualità di Melchisedec e non è forse del tutto sprovvisto di senso il fatto che l’autore del Decameron, alla fine della seconda novella della prima giornata di cui si è parlato, decida di far battezzare Abraam proprio, col nome di Giovanni.

Anche in Franco Sacchetti, che pochi anni dopo il Decameron si cimenta nella scrittura delle Trecentonovelle,26 incontriamo delle figure di ebrei. Sacchetti, che nel proemio si propone di scrivere alla maniera di Boccaccio, li mette in scena in quattro novelle: la 24, la 190, la 218 e la 219. Diversamente dalla visione decisamente positiva che propone Boccaccio, Sacchetti elabora delle figure più complesse e diversificate, infatti gli ebrei sono ora vittime delle beffe dei cristiani (novelle 24 e 190), ora beffatori (218 e 219). Tuttavia anche nel primo caso non vi è nei loro  confronti nessuna critica oltre a quella di stoltezza e di cecità nei confronti della vera fede, ma niente che vada al di là di queste accuse retoriche, legate più a un topos narrativo che a un vero intento antiebraico. Seppure mettano in scena gli aspetti negativi degli ebrei, le due novelle sono soprattutto volte ad esaltare l’accortezza di Messer Dolcibene e l’astuzia di Gian Sega, due cristiani che, con astuzia, riescono a gabbare alcuni ebrei sprovveduti. Sprovveduti e smarriti nella loro fede appunto, ma in nessun caso malvagi, in nessun caso meritevoli per questo di un qualsivoglia supplizio.

È di rilievo infatti osservare che nelle novelle 218 e 219 viene ricordata ancora una volta la stoltezza della fede ebraica ma questa viene messa sullo stesso piano della stoltezza dei cristiani:

Benché i cristiani sono oggi si tristi, e con si poca fede, che abbiene il danno. Ed anco [...] non  so dove manchi più la fede, o nell’uno o nell’altro.27

Si stigmatizza cioè la mancanza di fede degli uomini in modo generale e la loro volontà di opporsi à Dio e soprattutto, ancora una volta, la vanità le donne, definite “poco savi(e)” e “molto stolte”. Vere protagoniste delle novelle 218 e 219 sono infatti tre donne che non contente del loro destino (una ha un figlio che “non paresse che crescesse come si convenia”28 e le altre che “avendo voglia di far figliuoli”)29 si affidano ai consigli di un ebreo per cercare di cambiare il destino che Dio aveva loro scelto. La loro superbia, quindi, e non la malvagità dell’ebreo sono all’origine della punizione, in una sorta di legge del contrappasso in cui l’ebreo non è che l’agente del volere divino. Come nella cronaca villaniana, le critiche morali dell’autore delle Trecentonovelle hanno come bersaglio le donne.

Dai riscontri fin qui esposti si possono trarre alcune conclusioni relative allo statuto e alla percezione degli ebrei nella società della Penisola durante gli anni della peste nera. Riprendiamo quindi l’affermazione di Attilio Milano da cui siamo partiti e vediamo di completarla e di meglio precisarla.

Quel “naturale equilibrio” di cui parla Attilio Milano con il quale, alla luce di quanto detto fino ad ora non si può che essere in accordo, ci sembra riconducibile proprio a quella particolare mentalità dei mercanti, alla loro lungimiranza, alla loro capacità di guardare direttamente e soprattutto all’utile, scavalcando o semplicemente ignorando barriere culturali e ideologiche che altrove sono state  erette provocando il martirio di migliaia di innocenti. Un discernimento che porta a riconoscere i propri simili tra coloro che parlano la stessa lingua e professano la medesima fede ma anche e forse soprattutto a rispettare e in un certo modo proteggere i simili in arte, coloro che hanno fatto del commercio la loro “religione”, e dello scambio il loro credo. Quella religione alla quale tanti italiani in patria e in terra straniera si erano votati e che tantissimi ebrei, ovunque in Europa, anche per forza di cose, avevano dovuto abbracciare.

Questo in definitiva ci insegnano, seppur tra le righe Giovanni Villani le testimonianze raccolte ad Orvieto durante il periodo di crisi provocato dalla peste nera e soprattutto l’inedita discrezione dei cronisti italiani riguardo ai massacri perpetrati sulle comunità ebraiche. Una discrezione che quando viene rotta, come in Matteo Villani, esprime solo incomprensione e condanna nei confronti di tali derive.

Lo stesso atteggiamento, come abbiamo avuto modo di vedere poc’anzi, è riscontrabile anche in campo letterario e il Boccaccio e il Sacchetti sono certamente i più noti, ma non gli unici esempi che si potrebbero citare. Un atteggiamento globalmente agli antipodi, da quello sviluppatosi a poca distanza in quelle aree geografiche da cui gli ebrei, perseguitati, fuggivano per rifugiarsi proprio al di qua delle Alpi.

Un atteggiamento che nasce dalla mediazione di un linguaggio e da una sensibilità comuni tra mercanti cristiani, “Lombardi”, e ebrei. Un’intesa purtroppo fragile e tutto sommato breve ma che, tuttavia, in questa particolare occasione che ci vede qui riuniti per studiare la vita e la cultura diasporica, ci sembra di particolare buon auspicio e importante da ricordare.

 

 

NOTE

1  Milano 1963, 130.

2 Ibidem.

3 Nel giro di pochi decenni gli ebrei potevano passare da un contesto sociale particolarmente ostile nei loro confronti, come lo fu quello che corrispose alle reazioni popolari in seguito alla prima crociata (1095), a una condizione stabile e addiritura privilegiata come quella che Beniamino di Tudela  racconta per la comunità ebraica di Roma all’epoca di Alessandro III papa (seconda metà del XII secolo) e di nuovo, nel giro di pochi decenni, subire le angherie di Innocenzo III che apertamente dichiarava di detestare gli ebrei al punto da decretare che essi dovevano vivere nell’abiezione e nella miseria più totale in modo da rendere più grande la gloria del cristianesimo. Una stigmatizzazione e una violenza nei confronti degli ebrei che raggiunge talvolta un’apice critico come quello raggiunto con il concilio Lateranense del 1215 voluta da Innocenzo III che impose l’obbligo agli ebrei di portare un simbolo distintivo che potesse impedire ai cristiani di avere dei rapporti sessuali “per errore” con loro.

4 Il Biraben nel 1975 dà un’estimazione approssimativa dei morti di peste nera degli anni intorno al 1348. Nel giro di pochi anni tra la metà e due terzi della popolazione europea, a seconda delle regioni, viene decimata, i racconti, in particolare dei cronisti su questa ecatombe sono talvolta particolarmente chiari ed eloquenti riguardo all’impatto psicologico della catastrofe sui sopravvissuti.

5 “Dappoi per li tempi moltiplicando la gente, sono stati alquanti diluvi particolari, mortalità, corruzioni e pistolenza, fami e molti altri mali, che Iddio ha permessso venire sopra gli uomini per i loro peccati”. Villani, Matteo 1991, 292.

6 Lo stesso papa Clemente VI fin dal 1348 adatta la liturgia alle circostanze istituendo una celebrazione speciale per la peste. Numerosi autori, laici ed ecclesiastici, redigono delle orazioni ad hoc  con l’intento di arginare l’epidemia: “Gilles li Muisis, abbé de Saint?Martin de Tournai, au début d’août 1349, écrit sa chronique dans laquelle il donne plusieurs prières en français, dont deux adressées à saint Sébastien pour dire en temps de peste. […] En 1508, le Mortilogus de Conrad Reitter s’adresse à la vierge: ‘Ouvre à des abandonnées ton refuge, ô Mère. Nous nous cachons tranquilles sous tes ailes, hors d’atteinte de la peste et de ses traits empoisonnés’”. Biraben 1975, 64.

7  Isaac 1956.

8  Poliakov 1961, 125?126.

9  Simon, 1983, 244.

10  Poliakov 1961, 125?126.

11  Foa 2004, 14.

12  Von Grünau in Poliakov 1961, 600.

13  Luzzati 1985, 173 e seguenti.

14  Ibidem, 179.

15  Harboun 1986.

16  Di Tura in Muratori 1934, 555.

17 Villani, Matteo 1991, Introduzione, IX, CVII.

18 Villani, Giovanni 1991.

19 Gros.

20  Carpentier 1962.

21  Ibidem, 206.

22  Boccaccio 1980, 71 e seguenti.

23  Ibidem, 78 e seguenti.

24  Conte 2001.

25  Da Gubbio MDCCCXXXIII, 455?456.

26  Sacchetti, 1984.

27  Ibidem, 196.

28  Ibidem, 194.

29  Ibidem, 196.

 

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