Le elezioni americane
la presidenza e la politica estera

07/08/2012

Da un articolo di George Friedman per Strategic Forecasting.

Le campagne presidenziali sembrano fatte apposta per ingannare. I candidati fanno promesse la cui realizzazione è al di là delle loro possibilità. Chiaramente nessuno può sperare di essere eletto se ammette che i poteri reali della carica sono ridotti, dunque gli elettori possono attendere poco dall’uno o dall’altro. Nonostante i programmi rivoluzionari spesso presentati, il Presidente ha un margine di manovra molto più ridotto di quanto si pensi, è preso in trappola tra l’opinione pubblica, le interferenze del Congresso e la realtà geopolitica fattuale.  

Barack Obama, per esempio, aveva promesso in campagna elettorale di voler ridefinire le relazioni con l’Europa e il mondo islamico, ma nessuno dei progetti si è concretizzato.È stato giustamente sottolineato quanto poco la sua politica estera abbia differito da quella di G. W. Bush; questo non significa che Obama non avesse intenzione di condurre una politica estera differente, ma semplicemente che ciò che un Presidente vuole e quello che poi realmente riesce a realizzare sono due cose ben diverse. Il Presidente non ha il potere di trasformare la politica estera americana; sono gli interessi americani e gli equilibri mondiali a farlo.

Per un certo verso l’attuale politica estera americana è la stessa da circa un secolo. In tutto questo periodo gli Stati Uniti hanno cercato di mantenere in equilibrio il sistema internazionale per contenere le potenziali minacce provenienti dall’emisfero orientale, che è stato dilaniato da numerose guerre. Mentre così non è stato per l’emisfero occidentale in generale e per il Nord America in particolare, poiché nessun presidente potrebbe permettersi di lasciar scoppiare una guerra in Nord America. Proprio in questo consiste la vera impronta del presidente in politica estera: nella scelta di una strategia funzionale al mantenimento della pace in patria. Durante la Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti sono intervenuti solo quando i tedeschi hanno iniziato a metter in pericolo le rotte dell’Atlantico e lo zar era caduto, ovvero quando il sistema europeo era ormai squilibrato, e i tedeschi iniziavano a prevalere nettamente. Nella Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno perseguito una strategia simile, aspettando che il sistema in Europa e in Asia fosse già fuori equilibrio per intervenire. Questo atteggiamento venne definito isolazionista, ma è una definizione semplicistica per una strategia che si basa sull’equilibrio di potere e prevede l’intervento solo in ultima istanza.

Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno adottato una strategia opposta, mantenendo attivamente gli equilibri nell’emisfero orientale attraverso continui interventi. Questo cambio di strategia era la reazione alla percezione dell’errore politico che aveva portato alla Seconda Guerra Mondiale; la convinzione che un intervento più tempestivo avrebbe evitato il collasso dell’equilibrio europeo, bloccato l’avventurismo giapponese e limitato le perdite statunitensi.

Il bilanciamento attivo godette di un certo consenso nei decenni della Guerra Fredda, ma poi la guerra in Vietnam favorì il sorgere di un punto di vista diverso nel partito Democratico, che ritenne che in realtà il bilanciamento attivo destabilizzasse l’emisfero orientale causando conflitti non necessari, favorisse la formazione di sentimenti anti americani ed aumentasse i rischi.

Se si esaminano attentamente le dichiarazioni di Obama durante la campagna elettorale del 2008 e il suo operato una volta in carica, si nota che ha cercato di spostare la politica estera americana dal bilanciamento attivo al lasciare che gli equilibri di potere a livello regionale si mantenessero da soli. Il cambiamento non è stato brusco, ma progressivo, aumentando l’impegno statunitense in Afghanistan e riducendolo in altre aree. La Siria è un buon esempio: la sopravvivenza del regime di Bashar al Assad potrebbe sbilanciare la regione, favorendo la formazione di una significativa sfera di influenza iraniana, ma la strategia di Obama non è stata quella di intervenire, bensì di lasciare che fossero le dinamiche di potere a livello regionale ad innescarsi e risolvere il problema. Obama ha contato sul fatto che i Sauditi e i Turchi avrebbero bloccato le mire iraniane indebolendo Assad, non perché gli Stati Uniti glielo chiedevano, ma perché era nel loro interesse farlo.

Obama, dunque, ritiene che la lezione delle guerre mondiali non si debba applicare all’attuale sistema globale e che, così come in Siria, la potenza globale debba lasciare che siano quelle regionali a gestire il bilanciamento. Romney, invece, parte dal presupposto che sia necessario un bilanciamento attivo. Nel caso della Siria potrebbe sostenere che, lasciando che il sistema regolasse autonomamente la questione, Obama ha permesso all’Iran di sondare il terreno senza troppe conseguenze e ha fallito nell’offrire una soluzione alla questione centrale, ovvero al fatto che il ritiro statunitense dall’Iraq lascia un vuoto che l’Iran – o il caos – hanno riempito, e che a tempo debito la situazione diventerà tanto instabile e pericolosa che gli stati Uniti dovranno intervenire. Per scongiurare questa eventualità Romney durante la sua visita in Israele ha chiesto una soluzione definitiva al problema iraniano, non il suo semplice contenimento. Romney si dissocia anche dalla convinzione di Obama che non esista un paese egemone eurasiatico di cui preoccuparsi e ha citato, per esempio, il riemergere della Russia come potenziale minaccia per gli interessi americani. Per lui le lezioni delle guerre mondiali e della Guerra Fredda vanno combinate: lasciare che l’equilibrio di potenza faccia il suo corso non fa altro che posticipare l’intervento americano, aumentando il prezzo da pagare.  

Romney è anche meno attento di Obama all’opinione pubblica mondiale. Romney potrebbe dire che Obama ha fallito nell’influenzare l’opinione pubblica mondiale in modo decisivo, nonostante le grandi aspettative che il mondo intero aveva nei confronti della sua presidenza. Dal suo punto di vista, questo è accaduto perché è impossibile soddisfare i desideri del mondo, in quanto sono sempre contraddittori, né può essere lo scontento globale a guidare la politica estera americana. Se Obama può sostenere che l’antiamericanismo alimenta il terrorismo e le coalizioni anti americane, Romney può affermare che sono l’ideologia e gli interessi, non i sentimenti, i motivi per cui un paese si oppone alla potenza globale.

Ecco quali argomentazioni ognuno dei candidati potrebbe apportare se i due non fossero in campagna elettorale, situazione in cui il loro obiettivo non è quello di programmare una politica estera coerente, ma soltanto di mettere in difficoltà l’avversario e di guadagnare voti. Ci si deve dunque basare sulle azioni concrete ma anche sulle allusioni per determinare le loro vere posizioni. Tuttavia non è necessariamente della scelta tra equilibrio regionale e bilanciamento attivo che gli Stati Uniti devono preoccuparsi. Come detto all’inizio, la presidenza americana è istituzionalmente debole, nonostante il suo enorme prestigio. È limitata costituzionalmente, politicamente e in ultimo dipende dalle azioni degli altri: se al Qaeda non avesse attaccato l’America l’11 settembre, la presidenza di G. W. Bush sarebbe stata radicalmente differente. È il mondo a forgiare la politica estera americana e, più il mondo agisce, minore è il margine di manovra del Presidente.

Obama ha cercato di creare le condizioni per cui gli Stati Uniti potessero disimpegnarsi dal contenimento attivo di certe minacce, e finora questo gli è stato possibile. Ma non è affatto detto che il sistema internazionale gli consentirà di continuare su questa china in caso di rielezione.

I presidenti scrivono sì la storia, ma non a loro piacimento; la realtà li vincola e li limita. Nello scegliere un presidente è importante ricordare che i candidati dicono quello che serve per essere eletti. Ma anche se dicono quello che davvero vorrebbero fare, non è detto che saranno in grado di farlo. La scelta semplicemente non è in mano loro. 

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