Perché ci odiano
Una vera crociata contro le donne ha luogo in Medio Oriente

14/05/2012

Traduzione di un articolo di Mona Eltahawy.

Nel suo “Vista del minareto in lontananza”, la scomparsa e a lungo misconosciuta scrittrice egiziana Alifa Rifaat inizia il racconto con una donna tanto indifferente al sesso con il marito che, mentre questi si concentra esclusivamente sul proprio piacere, lei si accorge di una ragnatela che deve spazzare dal soffitto e ha il tempo di rimuginare sul reiterato rifiuto del marito di prolungare il rapporto fino a quando anche lei abbia raggiunto l’orgasmo, “apposta per privarla di questo piacere”. Proprio mentre il marito le nega l’orgasmo, la chiamata alla preghiera lo interrompe, e se ne va. Dopo essersi lavata, si perde nella preghiera − tanto più soddisfacente di quello in cui era impegnata prima, che non vede l’ora che arrivi la prossima − e si affaccia sulla strada dal suo balcone. Smette di fantasticare per andare a preparare il caffè che il marito berrà dopo il suo pisolino. Nel portarglielo nella camera da letto per versarlo davanti a lui, come di suo gradimento, si accorge che è morto. Dà istruzioni al figlio perché vada a chiamare un dottore. “Tornò in soggiorno e si versò il caffè. Fu sorpresa di quanto fosse calma”, scrive Rifaat.

In tre pagine e mezzo molto asciutte, Rifaat mostra la triade di sesso, morte e religione, il bulldozer che annulla negazioni e atteggiamenti difensivi per toccare il cuore vivo della misoginia in Medio Oriente. Non c’è modo di edulcorare questa realtà. Non ci odiano per la nostra libertà, come sostiene l’ormai stanco cliché americano post 11 settembre. Non abbiamo libertà perché ci odiano, come afferma con così tanta forza questa donna araba.

Si, ci odiano e questo va detto. Qualcuno potrebbe domandare perché risollevo la questione adesso che la regione è in rivolta, non per il consueto odio nei confronti di America e Israele, ma per una comune richiesta di libertà. Dopo tutto, non si dovrebbe pensare a conquistare diritti fondamentali per tutti, prima che le donne chiedano un trattamento speciale? E che cosa hanno a che vedere le questioni di genere o il sesso con la Primavera Araba? Non sto parlando di sesso nascosto negli angoli bui e tra le mura delle camere da letto. Un intero sistema politico ed economico − un sistema che tratta la metà dell’umanità come animali − deve essere distrutto insieme alle altre più evidenti tirannie che pregiudicano il futuro della regione. Fino a quando la nostra rabbia non si estenderà dagli oppressori che occupano i palazzi presidenziali agli oppressori che sono nelle nostre strade e nelle nostre case, la nostra rivoluzione non potrà dirsi nemmeno cominciata.

È vero che in tutto il mondo le donne devono affrontare difficoltà, che gli Stati Uniti non hanno ancora eletto un presidente donna, che le donne continuano a essere trattate come oggetti in molti paesi occidentali (vivo in uno di essi). Ecco dove normalmente si va a parare quando si tenta di discutere del perché le società arabe odino le donne.

Ma mettiamo da parte ciò che gli Stati Uniti fanno o non fanno alle donne. Nominatemi un paese arabo e sarò in grado di recitare una litania di abusi alimentati da una miscela tossica di cultura e religione che pochi sembrano disposti o capaci di districare, per timore di esser giudicati blasfemi o offensivi. Quando più del 90% delle donne egiziane sposate − tra cui mia madre e cinque delle sue sei sorelle − hanno subito una mutilazione genitale in nome del pudore, allora senza dubbio tutti dobbiamo diventare blasfemi. Quando le donne egiziane sono sottoposte a umilianti “test della verginità” solo per il fatto di aver parlato a voce alta, non è certo il momento di restare in silenzio. Quando un articolo nel codice penale egiziano dice che se un marito ha picchiato una donna “con buone intenzioni” lei non ha diritto ad alcun risarcimento legale, che la political correctness se ne vada al diavolo. E quali sarebbero, di grazia, “buone intenzioni”? Giuridicamente, comprendono qualsiasi pestaggio “non grave” e non “diretto al viso”. Ciò significa che quando si tratta di condizione femminile in Medio Oriente, la realtà non è meglio di quanto si pensi. Anzi, è molto, molto peggiore. Anche dopo queste “rivoluzioni”, si pensa che tutto vada più o meno bene fintanto che le donne sono coperte, inchiodate nelle loro case, finché si vedono negata la possibilità di guidare le loro auto, finché sono costrette a chiedere il permesso degli uomini per poter viaggiare e sono impossibilitate a sposarsi – o a divorziare − senza l’accordo di un tutore maschio.

Nella top 100 del “Global Gender Gap Report” del World Economic Forum non si trova un solo paese arabo, visto che l’intera regione occupa stabilmente gli ultimi posti della lista. Poveri o ricchi, tutti odiamo le nostre donne. L’Arabia Saudita e lo Yemen, per esempio, saranno a eoni di distanza per quanto riguarda il PIL, ma solo quattro posti li dividono nell’indice suddetto, con il regno saudita alla 131° posizione e lo Yemen alla 135° su 135 paesi. Il Marocco, spesso propagandato per il suo diritto di famiglia “progressista” (un rapporto stilato da “esperti” occidentali nel 2005 lo ha infatti definito “un esempio per i paesi islamici che mirano a integrarsi nella società moderna”), si trova al 129° posto. Secondo il Ministero della Giustizia del Marocco, nel 2010 si sono sposate ben 41,098 ragazze al di sotto dei 18 anni.

È facile capire perché all’ultimo posto troviamo lo Yemen, un paese in cui il 55% delle donne è analfabeta, il 79% non fa parte della forza lavoro, e in un parlamento composto da 301 persone siede una sola donna. Le notizie di casi terribili di ragazzine dodicenni che muoiono di parto possono fare ben poco per arginare il fenomeno del matrimonio di minori in quel paese. Anzi, le manifestazioni a sostegno del matrimonio precoce superano di gran lunga quelle che vi si oppongono, alimentate da dichiarazioni clericali secondo cui chi condanna la pedofilia è un apostata perché il Profeta Maometto, secondo loro, sposò la sua seconda moglie Aisha quando era ancora una bambina.

Ma almeno le donne yemenite possono guidare. Sicuramente questo non risolve i loro problemi, ma perlomeno simboleggia una certa libertà − e in nessun luogo un fatto simbolico del genere ha maggiore eco che in Arabia Saudita, dove il matrimonio precoce è comune e le donne restano minorenni a vita, indipendentemente dalla loro età o dal livello di istruzione. Le donne saudite sono decisamente più numerose dei loro colleghi maschi nei campus universitari, ma sono costrette a guardare uomini molto meno qualificati di loro controllare ogni aspetto della loro vita.

Si, proprio l’Arabia Saudita, il paese in cui una donna sopravvissuta a uno stupro di gruppo è stata condannata alla prigione per aver accettato di salire in macchina con un maschio estraneo alla sua famiglia e per questo ha avuto bisogno di ottenere la grazia da parte del re; l’Arabia Saudita, dove una donna che aveva infranto il divieto di guidare è stata condannata a 10 frustate e, di nuovo, ha dovuto richiedere il perdono regale; l’Arabia Saudita, dove le donne ancora non possono votare o candidarsi alle elezioni, ma è considerato un “progresso” che un regio decreto abbia promesso di concedere loro il diritto di voto per le elezioni locali, poco più che simboliche, previste – fate attenzione – per il 2015. La situazione delle donne in Arabia Saudita è talmente critica che queste paternalistiche pacche sulle spalle sono accolte con gioia, mentre il monarca che le dispensa, il re Abdullah, viene salutato come un “riformatore” anche da coloro che dovrebbero comportarsi ben diversamente, come Newsweek, che nel 2010 mise il nome del re fra i primi 11 leader mondiali più rispettabili.

Volete sapere quanto è critica la situazione? La risposta del “riformatore” alle rivoluzioni che stanno spuntando in tutta la regione è stata quella di ammansire il suo popolo con altre elargizioni governative - soprattutto ai fanatici salafiti dai quali la famiglia reale saudita trae legittimità. Il re Abdullah ha 87 anni. Il suo successore, secondo la linea dinastica, sarà il principe Nayef, un uomo uscito dal Medioevo. La sua misoginia e il suo fanatismo faranno sembrare il re Abdullah una sorta di Susan B. Anthony (attivista americana per i diritti delle donne vissuta nel XIX secolo, ndt).  

Allora, perché ci odiano? Il sesso, o meglio l’imene, spiega molto.

Perché gli estremisti si concentrino sempre sulle donne resta un mistero per me”, ha recentemente affermato il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton. “Ma pare che lo facciano tutti. Non importa in quale paese vivano o quale religione professino.Vogliono controllare le donne”. (Eppure Hillary Clinton rappresenta un’amministrazione che sostiene apertamente molti di quei despoti misogini). I tentativi di controllo da parte di tali regimi derivano spesso dal timore che altrimenti le donne siano a un passo dall’insaziabilità sessuale. Si osservi per esempio il religioso conservatore Yusuf al-Qaradawi, popolare conduttore TV su Al Jazeera, che ha sviluppato una straordinaria passione per le rivoluzioni della Primavera Araba – quando già erano in corso e ne ha compreso la rilevanza − fermamente convinto che avrebbero eliminato i tiranni che a lungo avevano tormentato sia lui che il movimento dei Fratelli Musulmani da cui lui è spuntato.

Potrei citare molte affermazioni sulla Donna Insaziabile Tentatrice, ma preferisco rimanere nel mainstream con Qaradawi, che influisce su un enorme pubblico, non solo televisivo. Anche se sostiene che le mutilazioni genitali femminili (che lui chiama “circoncisioni”, un eufemismo che cerca di porre la pratica sullo stesso piano della circoncisione maschile) non sono “obbligatorie”, in uno dei suoi libri si trova questa impagabile osservazione: “io personalmente sono a favore di questa pratica, date le attuali circostanze del mondo moderno. Chiunque ritenga che la circoncisione sia il modo migliore per proteggere le proprie figlie dovrebbe farlo”, ha scritto, aggiungendo: “l’opinione moderata è favorevole a praticare la circoncisione per ridurre le tentazioni”. Così, anche tra i “moderati”, i genitali delle ragazze vengono mutilati per assicurarsi che il loro desiderio venga stroncato sul nascere. Intanto, Qaradawi ha emesso una fatwa contro le mutilazioni genitali femminili, ma non sorprende che, quando l’Egitto ha vietato la pratica nel 2008, alcuni esponenti dei Fratelli Musulmani si siano opposti. E alcuni ancora lo stanno facendo − compresa una parlamentare di primo piano come al-Azza Garf.

Eppure sono gli uomini che non riescono a controllarsi per le strade, dove − dal Marocco allo Yemen − le molestie sessuali sono endemiche ed è per il bene degli uomini che tante donne sono costrette a coprirsi. Il Cairo ha un vagone della metropolitana per sole donne per proteggerci dalle mani “vaganti” e da comportamenti ancora peggiori; in Arabia Saudita esistono innumerevoli viali solo per famiglie, a cui uomini soli non hanno accesso a meno che non dimostrino di dover accompagnare una donna.

Spesso sentiamo come le economie mal funzionanti del Medio Oriente precludano a molti uomini la possibilità di sposarsi, e alcuni usano addirittura questo dato per spiegare i livelli crescenti di molestie sessuali per le strade. In un sondaggio del 2008 del Centro Egiziano per i Diritti della Donna, oltre l’80% delle donne egiziane ha detto di aver subito molestie sessuali e più del 60% degli uomini ha ammesso di aver molestato delle donne. Eppure non abbiamo mai sentito parlare di quali siano gli effetti di un matrimonio tardivo sulle donne. Le donne hanno pulsioni sessuali o no? A quanto pare, la “giuria araba” ancora non conosce le basi della biologia umana.

Entrate nel clima della chiamata alla preghiera e nello stato di sublimazione attraverso la religione descritti così brillantemente da Rifaat nel suo racconto. I chierici di regime tengono a bada i poveri di tutta la regione con la promessa che otterranno giustizia − e vergini nubili − nell’aldilà piuttosto che fare i conti con la corruzione e il nepotismo del dittatore in questa vita. Così le donne sono messe a tacere dal micidiale insieme di uomini che non solo le odiano, ma hanno anche la ferma pretesa di avere Dio dalla loro parte.

Torno ancora una volta all’Arabia Saudita, non solo perché quando ho conosciuto il paese all’età di 15 anni ne sono stata tanto scioccata da divenire femminista − non c'è altro modo per spiegarlo − ma perché il Regno è sfrontato nella sua fede in un Dio misogino, e non ne paga le conseguenze grazie al doppio vantaggio di avere giacimenti di petrolio e i due luoghi più sacri per l’islam, La Mecca e Medina. Negli anni ‘80 e ’90, così come ora, i religiosi che parlavano alla TV saudita erano ossessionati dalle donne e dai loro orifizi, e specialmente da quello che può uscirne. Non dimenticherò mai di aver sentito affermare che se un bambino ha urinato su di voi, potete continuare a pregare con gli stessi abiti, ma se è una bambina a farlo, in quel caso ci si deve cambiare. “In che modo l’urina di una bimba può rendere impuri?” mi chiedevo.

Odio per le donne.

Quanto odia le donne l’Arabia Saudita? Tanto che 15 ragazze sono morte in un incendio in una scuola a La Mecca nel 2002, dopo che la “polizia morale” aveva impedito loro di fuggire dal palazzo in fiamme − e trattenuto i vigili del fuoco dal salvarle − perché le ragazze non indossavano il velo e l’abbigliamento richiesti in pubblico. E non è successo niente. Nessuno è stato messo sotto processo. I genitori sono stati messi a tacere. L’unica concessione di fronte a tale orrore fu che l’educazione delle ragazze venne sottratta dall’allora principe ereditario Abdullah ai fanatici salafiti, che sono però riusciti a mantenere la loro influenza sul sistema scolastico del regno.

Questo, tuttavia, non è un fenomeno esclusivamente saudita, non si tratta di un’odiosa particolarità limitata al ricco e isolato deserto. L’odio islamista per le donne è diffuso in tutta la regione, oggi più che mai.

In Kuwait, dove per anni gli islamisti si sono opposti all’emancipazione femminile, sono riusciti a cacciare le quattro donne che erano finalmente entrate in parlamento, e a esigere che le due che non coprivano i capelli con il foulard indossassero l’hijab. Quando il parlamento kuwaitiano fu sciolto lo scorso dicembre, un parlamentare islamista chiese che la nuova assemblea – ormai priva di legislatori di sesso femminile – discutesse la sua proposta di legge sull’ “abbigliamento decente”.

In Tunisia, a lungo considerata un campione di tolleranza nella regione, le donne hanno tirato un sospiro di sollievo lo scorso autunno, quando il partito islamista Ennahda si è aggiudicato la maggioranza dei voti nell’Assemblea Costituente del paese. I leader del partito hanno promesso di rispettare il codice tunisino del 1956 sulla libertà della persona, che afferma “il principio della parità tra uomini e donne” in quanto cittadini, e vieta la poligamia. Ma professoresse e studentesse universitarie hanno denunciato aggressioni e intimidazioni da parte degli islamisti per non aver indossato l’hijab, e molte attiviste per i diritti delle donne si chiedono come la sharia potrà influenzare le leggi sotto cui vivranno nella Tunisia post-rivoluzionaria.

In Libia la prima cosa che il capo del governo ad interim, Mustafa Abdel Jalil, ha promesso di fare è abolire le ultime restrizioni del tiranno libico sulla poligamia. Affinché non pensiate che Muammar al-Gheddafi fosse una sorta di femminista, ricordo che sotto il suo governo ragazze e donne sopravvissute ad aggressioni sessuali o sospettate di “crimini morali” venivano rinchiuse in “centri di riabilitazione sociale”, vere e proprie prigioni dalle quali non potevano uscire a meno che un uomo accettasse di sposarle, oppure le famiglie venissero a riprendersele.

Poi c’è l’Egitto dove, meno di un mese dopo le dimissioni del presidente Hosni Mubarak, la giunta militare che lo ha sostituito, ufficialmente per “proteggere la rivoluzione”, ci ha inavvertitamente ricordato le rivoluzioni di cui noi donne abbiamo bisogno. Dopo aver svuotato piazza Tahrir dai manifestanti, i militari hanno trattenuto decine di attivisti maschi e femmine. I tiranni opprimono, picchiano e torturano tutti, si sa. Ma questi ufficiali hanno riservato dei “test di verginità” alle attiviste femmine: veri e propri stupri camuffati da visite mediche, con un dottore che inseriva le dita nella vagina in cerca dell’imene. (Il medico è stato denunciato e, infine, assolto a marzo.)

Che speranza ci può essere per le donne nel nuovo parlamento egiziano, dominato com’è da uomini fermi al XI secolo? Un quarto dei seggi parlamentari è ora detenuto dai salafiti, che credono che conformarsi alla vita del profeta Maometto sia una ricetta appropriata alla vita moderna. Lo scorso autunno, quando ha messo in campo delle donne, il partito salafita egiziano al-Nur ha coperto con un fiore i volti delle sue candidate. Le donne non devono essere viste né sentite − anche le loro voci rappresentano una tentazione − quindi nel parlamento egiziano sono coperte di nero dalla testa ai piedi e non possono proferire verbo.

E siamo nel bel mezzo di una rivoluzione in Egitto! Una rivoluzione in cui donne sono morte, sono state picchiate, colpite da spari e sessualmente aggredite mentre combattevano al fianco degli uomini per liberare il nostro paese dal Patriarca per antonomasia − Mubarak − mentre tanti altri piccoli patriarchi continuano a opprimerci. I Fratelli Musulmani, che detengono quasi la metà dei seggi nel nostro nuovo parlamento rivoluzionario, non credono che una donna (o un cristiano) possa diventare presidente. La donna che dirige il “comitato delle donne” del partito politico della Fratellanza ha detto di recente che le donne non dovrebbero marciare e protestare perché è più “dignitoso” lasciare che i loro mariti e fratelli lo facciano anche per loro.

L’odio nei confronti delle donne è radicato nella società egiziana. Quelle di noi che hanno marciato e protestato si sono dovute muovere su un campo minato di violenze sessuali sia da parte del regime e dei suoi lacchè che, purtroppo, a volte da parte dei nostri stessi compagni rivoluzionari. In un giorno di novembre sono stata violentata in via Mohamed Mahmoud, vicino a piazza Tahrir, da almeno quattro poliziotti antisommossa egiziani ed ero già stata molestata da un uomo nella piazza stessa. Mentre siamo ansiosi di rendere note le violenze da parte del regime, quando invece siamo violate dai nostri concittadini civili supponiamo immediatamente che si tratti di agenti del regime o di teppisti, perché non vogliamo contaminare la rivoluzione.

Quindi, che cosa si deve fare?

Per prima cosa smettere di fingere. Chiamare l’odio col suo nome. Resistere al relativismo culturale e tenere presente che anche in paesi che stanno attraversando fasi rivoluzionarie o sono scossi da rivolte, le donne restano la merce di scambio più economica. Al resto del mondo verrà detto che è proprio della nostra “cultura” e della nostra “religione” fare x, y o z alle donne. Tenete presente che non sono mai state le donne a stabilirlo. Le rivolte arabe possono esser state innescate da un uomo arabo − Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante tunisino che si è dato fuoco per la disperazione − ma verranno portate a termine dalle donne arabe. Amina Filali − ragazza marocchina di 16 anni che ha ingerito del veleno dopo essere stata costretta a sposare l’uomo che l’aveva violentata e picchiata − è il nostro Bouazizi. Salwa el-Husseini, la prima donna egiziana che si è pronunciata contro i “test di verginità”; Samira Ibrahim, la prima a denunciarli in tribunale e Rasha Abdel Rahman, che ha testimoniato al suo fianco, sono i nostri Bouazizi. Non dobbiamo aspettare che muoiano perché lo diventino. Manal al-Sharif, che ha trascorso nove giorni in carcere per aver infranto il divieto di guidare, è il Bouazizi dell’Arabia Saudita. Rappresenta una forza rivoluzionaria, anche se composta da una sola donna, che si scaglia contro un oceano di misoginia.

Le nostre rivoluzioni politiche non avranno successo se non saranno accompagnate da rivoluzioni del pensiero: rivoluzioni sociali, sessuali e culturali che consentano di rovesciare i Mubarak nella nostra mente, così come nelle nostre camere da letto.

“Sapete perché ci hanno sottoposto ai test di verginità?” Ibrahim mi ha chiesto subito dopo che avevamo passato ore a marciare insieme al Cairo per la Giornata internazionale della donna, l’8 marzo. “Vogliono ridurci al silenzio, vogliono ricacciare le donne nelle loro case. Ma non ce ne andremo da nessuna parte.”

Siamo più del nostro foulard e del nostro imene. Ascoltate quelle tra noi che stanno lottando. Diffondete le voci che provengono da questa regione e ficcate il dito in un occhio all’odio. C’è stato un tempo in cui essere islamista costituiva la posizione politica più vulnerabile in Egitto e in Tunisia.  Sappiate che ora la condizione più critica è data dall’essere donna. Come è sempre stato.

Lascia un commento

Vuoi partecipare attivamente alla crescita del sito commentando gli articoli e interagendo con gli utenti e con gli autori?
Non devi fare altro che accedere e lasciare il tuo segno.
Ti aspettiamo!

Accedi

Non sei ancora registrato?

Registrati

I vostri commenti

Per questo articolo non sono presenti commenti.