Che cos'è la geopolitica?
secondo George Friedman

08/12/2011

25 novembre 2011

La geopolitica si prefigge di individuare, attraverso la lente della geografia e del potere, che cosa è eterno, che cosa è di lunga durata e che cosa è transitorio. Più precisamente, tenta non solo di descrivere il reale, ma anche di prevedere gli eventi futuri.  Queste previsioni sono a volte, anzi molto spesso, contrarie al senso comune.

La ricerca di prevedibilità permea la condizione umana

Gli studenti ad esempio scelgono un determinato corso di studi cercando di prevedere che cosa gli piacerà, gli sarà utile e gli permetterà di guadagnare trent’anni più tardi. Prevediamo il tempo, i vincitori delle elezioni, le conseguenze di una guerra e così via. Se gli esseri umani fanno previsioni su ogni aspetto della loro esistenza significa che credono che ogni aspetto della loro esistenza sia prevedibile in qualche misura. Esistono professioni interamente basate sulla capacità di fare previsioni.

Il tipo di previsione più semplice riguarda i fenomeni naturali, perché la natura manca di volontà e non può compiere molte scelte, mentre le previsioni più complicate sono quelle che riguardano gli esseri umani, prima di tutto perché gli esseri umani possono operare scelte, persona per persona. La seconda e più rilevante fonte di inattendibilità è che chi fa le previsioni è un essere umano: desideri e pregiudizi personali inficiano inevitabilmente la previsione di come gli altri umani agiranno.

Tuttavia esistono intere scienze che si propongono di prevedere il comportamento umano. Ad esempio l’econometria, che si dedica – con più o meno successo – alla previsione dell’andamento dell’economia nazionale. Gli analisti di borsa cercano di prevedere il futuro dei mercati, gli analisti del lavoro prevedono l’andamento del mercato del lavoro e così via. La società è tutta permeata di  tentativi di previsione.

Il successo di una previsione si basa sull’includere nella valutazione ciò che è ovvio. Le persone intelligenti tendono a badar troppo poco a ciò che è ovvio, balzano a concetti e principi sofisticati in cerca di cose che le persone normali non riescono a notare. Il risultato è che le loro previsioni sono campate per aria invece di essere ancorate alla realtà.

Quindi, cominciamo dall’inizio.

L’amore per le nostre origini

Incominciamo proprio col considerare gli aspetti più ovvi. Gli uomini proteggono sé stessi e si prendono cura dei figli formando famiglie. Familiari consanguinei e acquisiti costituiscono l’ambiente sociale naturale per ciascuno di noi. Qui si pone la domanda più importante: perché ci si dovrebbe fidare più di un familiare che di uno sconosciuto? Questo è il nocciolo della questione: capire l’amore per le nostre origini è basilare per capire e prevedere il comportamento degli esseri umani. Però occorre anche tener conto del fatto che questo contrasta nettamente con un’altra tendenza: l’amore per ciò che acquisiamo.

L’idea che l’amore per ciò che acquisiamo, che comprende anche l’amore romantico, possa essere anteposto all’amore per le nostre origini ha introdotto una dinamica radicalmente nuova nella storia, per cui l’individuo e la libera scelta soppiantano la comunità e il dovere,  elevando il valore di ciò che acquisiamo per libera scelta ad un livello superiore rispetto al contesto in cui siamo nati.

Questo concetto è contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza americana che pone la vita, la libertà e la ricerca della felicità al di sopra di ogni dovere. L’Europa moderna, con la rivoluzione operata dal protestantesimo e maturata poi dall’illuminismo, introduce un’idea politica parallela al concetto di amore romantico: l’ideologia. L’ideologia è un valore acquisito, nessun bambino è liberale o stalinista. Si tratta di scelte possibili soltanto all’età della ragione.

Il protestantesimo eleva la coscienza personale a somma facoltà umana, ed è la coscienza a dettare le scelte. Quando l’illuminismo combina la libera scelta con la ragione, elabora l’idea che in tutte le cose – in particolar modo nella vita politica – l’individuo sia frutto non di credenze tramandate ma di ciò che la ragione gli dice essere giusto ed appropriato. La tradizione è soppiantata dunque dalla ragione e il vecchio regime è sostituito da quelli forgiati dalla rivoluzione e creati ex novo.

L’illuminismo moderno celebra l’amore dell’acquisito e denigra l’amore per le origini. La modernità è nemica in generale delle origini: i moderni regimi rivoluzionari rovesciano i vecchi proprio perché questi attribuivano i diritti in base alla nascita. Per i regimi moderni la nascita è casuale e non giustifica l’autorità di nessuno; questa dipende da come l’individuo costruisce se stesso, è basata sulla dimostrazione di certe virtù, non su diritti per nascita.

Il conflitto tra l’amore  per le origini e quello per l’acquisito caratterizza gli ultimi 500 anni di storia. È un conflitto tra società tradizionali in cui gli obblighi derivano dalla nascita e sono imposti da un naturale, semplice e spontaneo amore per le proprie origini, e società rivoluzionarie in cui gli obblighi derivano dalla libera scelta e da un complesso e consapevole amore per l’acquisito.

Nella società tradizionale ognuno sapeva chi era e di conseguenza gli veniva detto chi sarebbe stato per il resto della sua vita. Nella società post-rivoluzionaria ognuno sa chi è, ma non sa chi diventerà. È una questione di scelte, è un compito, un dovere personale. La società tradizionale era infinitamente più rigida, ma anche infinitamente più naturale. Amare i propri genitori e la propria casa è la prima e più semplice tra le emozioni. È di gran lunga più semplice amare o odiare le cose che già si amano o si odiano piuttosto che andare nel mondo a cercare e scegliere che altro ci sia da amare e odiare.

Questo ci conduce al nazionalismo – o, più in generale, all’amore e agli obblighi verso la comunità nella quale nasciamo, che si tratti di un piccolo gruppo nomade o di un vasto stato nazionale.

Il liberalismo moderno e il socialismo non sanno come comportarsi nei confronti del nazionalismo, che considera un impulso atavico, irrazionale e ingiustificabile. Gli economisti – che sono  la quintessenza dei pensatori moderni – sostengono, con il loro maestro Adam Smith, che il fine primario degli individui è  massimizzare il proprio interesse personale e acquisire ricchezza.  Ritengono cioè che questa non sia semplicemente una tra le tante cose che le persone possono fare, ma ciò che tutti fanno naturalmente se lasciati liberi.

Per gli economisti l’interesse egoistico è il solo impulso naturale, eppure si possono constatare molti esempi contrari. C’è tensione tra l’idea che gli Stati Uniti debbano promuovere “vita, libertà e ricerca della felicità” e la decisione di un soldato di sacrificare volontariamente la propria vita in guerra. Come conciliare il sacrificio di sé per la comunità – e la richiesta di sacrificio da parte della comunità – con l’affermazione che gli uomini perseguono l’acquisizione di beni che diano la felicità? Morire per un regime votato alla ricerca della felicità non ha alcun senso, ma morire per amore delle nostre origini ne ha molto di più. Eppure la moderna concezione dell’uomo ha difficoltà ad accettare questa idea: vuole abolire la guerra, bandirla come atavismo o bollarla come primitiva e innaturale. Sarà vero, ma è anche vero che la guerra continua ad esistere, così come l’amore per le proprie origini, con tutto ciò che ne consegue.

Che paradosso! I moderni regimi liberali celebrano l’autodeterminazione nazionale, ovvero il diritto di un popolo di scegliere la propria strada. Questa dottrina è frutto delle dinamiche politiche delle rivoluzioni europee e americane. L’Europa era governata da dinastie che detenevano il potere per diritto di nascita – rovesciarle fu lo scopo delle rivoluzioni europee. L’impulso che guidava le masse europee non era la teoria dei diritti naturali dell’uomo, ma l’amore per le proprie comunità o nazioni e l’odio per la dominazione straniera. La combinazione tra i principi morali rivoluzionari di alcune élite e il concetto di nazione ha creato la dottrina dell’autodeterminazione nazionale come coincidente con i diritti dell’uomo. Il fatto che i diritti dell’uomo e quelli della nazione – per quanto guidata democraticamente – potessero essere in opposizione tra loro non ha ostacolato le rivoluzioni.

Alle radici della società liberale moderna continua a battere il cuore della condizione umana: l’amore per le proprie origini. Perché amiamo le cose tra le quali siamo nati? Perché gli Americani amano l’America, gli Iraniani l’Iran e i Cinesi la Cina? Perché, nonostante le molte opzioni e il fatto che sicuramente molti vivono amando ciò che hanno acquisito, l’amore per le proprie origini continua a guidare gli uomini?

André Malraux scrisse che gli uomini lasciano il loro paese in modo molto nazionale: un americano espatriato è sempre un americano ed è molto diverso da un espatriato mongolo. In qualunque luogo si scelga di andare, qualunque identità si scelga di assumere, alla fine non sfuggiamo a quello che siamo. Il margine di manovra è molto più ristretto di quanto si immagini: un uomo può abbandonare la propria casa ma la casa non lo abbandona mai.

Per la maggior parte degli uomini questa è non solo la condizione umana, ma una condizione niente affatto dolorosa. Esser nati americani, ucraini o giapponesi e restare tali – non solo non è uno sforzo, ma è una comodità. Ti dice chi sei, dove devi stare e che cosa devi fare. Ci sono persone per cui questo è un peso, come per Ernest Hemingway che però, pur odiando la città natale, rimase fino alla morte uno che veniva da una piccola città americana. In questo l’unica differenza tra Hemingway e il commesso del supermercato della sua città natale fu che il commesso era contento di essere chi era, mentre Hemingway morì tentando disperatamente di sfuggire a se stesso. E non ci riuscì. Non c’è scampo dall’amore delle proprie origini, almeno per la maggioranza degli uomini.

In termini pratici, ne consegue che  il nazionalismo – la moderna forma di amore delle proprie origini – resta la forza motrice dell’umanità. Sono state fatte molte previsioni sul fatto che l’interdipendenza avrebbe causato il declino dello stato-nazione, della religione e della guerra. Perché questo succeda, occorre che l’impulso basilare dell’amore per le proprie origini e per il luogo di nascita venga superato. Certamente l’interesse economico personale è una forza potente, ma non c’è evidenza empirica che questo mini l’intensità del nazionalismo. Anzi, è quasi il contrario. Durante il XX secolo, mentre cresceva l’interdipendenza economica, il nazionalismo prendeva piede con sempre maggior vigore. La storia del secolo scorso è segnata dal rafforzarsi sia del razionalismo economico sia del nazionalismo.

Non si può prevedere che futuro avremo se non si capisce l’essenziale permanenza del nazionalismo come motivazione che a volte trascende anche gli interessi personali.

Il nostro luogo e la nostra paura

Le comunità – città, nazioni, anche quelle nomadi – vivono in determinati luoghi. Separandole dai loro luoghi, la loro natura cambia. Non è che la cultura si riduca alla località, ma ci sono caratteristiche che sono legate al luogo, in senso ampio. Consideriamo gli aspetti più semplici. Un eschimese ha un’esperienza del mondo diversa da un newyorchese: affronta la natura direttamente, mangia quello che caccia o quello che trova, e che cosa trova dipende da dove si trova. I modi della caccia e la ricerca di cibo sono determinati dal luogo e dagli strumenti disponibili, che a loro volta dipendono da che cosa si trova in loco. 

C’è poi un aspetto di fondamentale importanza che è legato al luogo: l’oggetto della nostra paura come comunità. Ovunque si viva, c’è sempre qualche altra nazione o comunità che ci mette paura. Due comunità che vivono fianco a fianco vivono nel timore costante l’una dell’altra perché non conoscono le intenzioni reciproche. Nei rapporti occasionali o personali, in cui il costo di un’errata valutazione è modesto, si è liberi di sperare per il meglio. Se sono in gioco la vita e la libertà personali, leconseguenze di una errata valutazione del rischio possono essere accettabili.  Ma quando sono a rischio la vita e la libertà dei figli, del coniuge, dei genitori e di tutto ciò che ci sta a cuore, il diritto di correr rischi cala drammaticamente. Diventa necessario prendere in considerazione la peggiore delle ipotesi.Come spiega dettagliatamente Thomas Hobbes nel “Leviatano”, le guerre nascono molto meno frequentemente dall’avidità che dalla paura: il fatto di non conoscere le intenzioni e le risorse dell’altro porta a non fidarsi, e porta a pensare non soltanto alla difesa, ma alla prevenzione dei pericoli. 

Il luogo in cui le comunità vivono guida il loro modello di vita, di educazione dei figli e di invecchiamento; determina contro chi si fanno le guerre e chi le vince. Il luogo definisce i nemici, le paure, le azioni e, soprattutto, i limiti. Il più grande statista islandese avrà sul mondo un impatto minore del più incompetente politico statunitense: l’Islanda è un paese piccolo e isolato con risorse e opzioni limitate; gli Stati Uniti sono un grande paese, che avrà sempre un potere considerevole. Il luogo condiziona la vita dei contadini come dei presidenti.

Il luogo determina anche la vulnerabilità. Consideriamo una nazione come la Polonia, schiacciata tra due paesi molto più grandi, la Germania e la Russia. Manca di ogni possibile elemento difensivo – fiumi, montagne, deserti. In tutta la sua storia è stata o estremamente aggressiva (di rado, considerate le sue risorse), o è stata (molto più frequentemente) vittima. La posizione geografica dei Polacchi determina in larga misura la storia della Polonia.

Ma la questione è ancora più  ampia. Il luogo determina anche la vita economica. La Germania dipendeva pesantemente dal ferro francese per la sua economia, i giapponesi dipendevano dall’acciaio e dal petrolio americano per far funzionare le loro industrie. Né la Germania né il Giappone potevano controllare il comportamento degli Stati Uniti. Sia la Francia che gli Stati Uniti cercarono di usare la dipendenza dei Tedeschi e dei Giapponesi per controllare i loro comportamenti. I Tedeschi e i Giapponesi avevano entrambi paura di esser soffocati. Come potevano essere certi delle intenzioni degli altri? Potevano arrogarsi il diritto di mettere a repentaglio il futuro della nazione sperando nella buona volontà di paesi coi quali avevano motivi di discordia? Il risultato fu la guerra. I Tedeschi, che fossero sotto Bismarck, sotto il Kaiser o sotto Hitler, tentarono di cambiare la situazione in modo da imporre la loro volontà ai Francesi. I Russi, spaventati da una Germania potente e sicura sul lato occidentale, non volevano che la Francia fosse sconfitta. La Germania comprese la paura russa e capì che se la Francia e la Russia avessero attaccato la Germania contemporaneamente, in tempi e modi scelti da loro, sarebbe stata sconfitta. Temendo questo, la Germania tentò per ben tre volte, e sotto regimi diversi, di risolvere il problema colpendo per prima. Fallì ogni volta.

Ciò che è importante capire è questo: nazioni e altre forme comunitarie agiscono in base alla paura molto più spesso che in base all’avidità o all’amore. La paura della catastrofe guida le politiche estere delle tribù nomadi così quella dei moderni stati-nazione. La paura, a sua volta, è condizionata dal luogo. La geografia definisce le opportunità, ma anche le vulnerabilità e le debolezze. La paura della dipendenza e della distruzione guida le nazioni, una paura che trova le sue radici nella posizione geografica.

Tempo e resistenza

Qualunque modello basato sull’assunzione che le comunità agiscano come un organismo singolo è chiaramente sbagliata. Una comunità è composta da numerose sub comunità, divise in molti modi,  e spesso contiene un ventaglio di gruppi etnici, denominazioni religiose o caste socialmente determinate. La distinzione più importante, chiaramente, è quella tra ricchi e poveri. La differenza di vita fra un povero contadino senza terre e un uomo ricco è qualitativamente totale, ad eccezione del fatto di nascere e morire. Vivono in modo differente e si guadagnano da vivere in modo differente.

Economisti liberali e marxisti, in apparenza nemici giurati, condividono la semplicistica visione per cui la nazione e altre forme di comunità si scioglieranno – secondo gli uni per il carattere transnazionale dei capitali, secondo gli altri per il carattere transnazionale della classe lavoratrice.

I ricchi e gli intellettuali soffrono di spesso un’illusione ottica che non gli fa percepire quanto il nazionalismo sia importante. I ricchi che possono mettere tra sé e la natura svariati livelli di tecnologia e di persone di servizio conducono una vita molto più simile a quella degli altri ricchi del mondo che a quella dei contadini del proprio paese. Per loro il luogo ha meno importanza che per gli altri. Un banchiere americano, per esempio, ha molte più cose in comune con un collega tedesco o cinese che con un contadino del suo paese. La ricchezza sembra dissolvere l’influsso del luogo. Lo stesso accade agli intellettuali di tutto il mondo che hanno più in comune fra di loro che con i  concittadini che li servono alla mensa dell’università.

Si potrebbe pensare che un’universalizzazione simile degli interessi abbia luogo anche tra i poveri. Karl Marx sosteneva che i lavoratori non avevano patria e che provavano un senso di solidarietà transnazionale con gli altri lavoratori. I banchieri possono non avere patria e gli intellettuali possono pensare che i lavoratori non l’abbiano, ma non c’è il minimo riscontro empirico che i lavoratori o i contadini sentano di non appartenere a una patria o almeno a una comunità. Il XX secolo è stato il cimitero delle fantasie intellettuali sull’indifferenza dei poveri all’interesse nazionale. Nelle due guerre mondiali sono state le classi medie e le classi povere a uccidersi a vicenda, e negli Stati Uniti sono state sempre loro a sostenere la guerra in Vietnam.

Qualsiasi discorso geopolitico deve cominciare dallo spiegare questo, perché la solita spiegazione che i poveri siano propensi alla guerra perché sono manipolati dai ricchi non ha molto senso. I ricchi spesso sono contrari alla guerra perché è negativa per gli affari e, cosa ancor più importante, i poveri non sono stupidi come gli intellettuali li credono, e hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano.

Iniziamo con il concetto di destino condiviso. Prendiamo in considerazione i due fattori che lo determinano: il primo è la grandezza di una nazione o di una comunità. Pensiamo a Israele, che è un piccolo paese. Qualunque cosa succeda ad Israele succede a tutti quelli che ci vivono: se Israele è invaso, nessun israeliano è immune dal subirne conseguenze gravi o addirittura catastrofiche. In nazioni più grandi, in particolar modo se in territori meno vulnerabili,  è facile ipotizzare circostanze in cui le conseguenze di quello che accade alla comunità non colpiscano direttamente l’individuo. Molti Americani possono pensare che le questioni di sicurezza nazionale non li riguardino personalmente. Nessuna ipotesi di questo tipo è possibile in paesi più piccoli ed esposti a rischi diretti.

Il secondo fattore da considerare è la classe sociale. È più facile per i ricchi proteggersi dal destino della propria comunità, che non per i cittadini appartenenti alla classe media o alle classi meno abbienti. Il ricco può mettere da parte denaro in altri paesi, mandare i propri figli all’estero e così via; ma nessuna di queste opzioni è praticabile per chi è povero. Il destino dei poveri è molto più intimamente connesso a quello della nazione. Ne consegue logicamente che le persone delle classi meno agiate tenderanno ad essere più caute nell’accettare rischi nell’ambito delle relazioni internazionali. Avendo un minore margine di manovra, hanno più da perdere nel caso che vada male e  meno da guadagnare nel caso che vada bene. Il cittadino medio è avverso al rischio, è diffidente nei confronti delle intenzioni dei paesi stranieri, sospettoso delle stravaganti prese di posizione dei ricchi e degli intellettuali sul vantaggio di superare i nazionalismi.

Se l’amore è la prima emozione di cui gli uomini fanno esperienza, la paura è la seconda. L’amore per le origini è rapidamente accompagnato dalla paura dell’altro. Più la persona è debole, meno risorse ha a disposizione, più sarà dipendente dalla comunità in cui vive. Più è dipendente, più sarà cauto nel correre rischi. Le persone ricche e potenti sono libere di essere avare e avide oppure avventurose e pronte al rischio; la vita dell’uomo comune è una vita di timori, e non è affatto irrazionale che sia sospettoso.

Nelle democrazie la lotta di classe non è quella che Marx aveva previsto, ma è la lotta tra il ricco internazionalista e il cittadino medio nazionalista. L’internazionalista, avendo un certo margine di manovra, sostiene che sul lungo periodo le avventure transnazionali – WTO, FMI, EU, NAFTA – saranno benefiche per l’intera società. I suoi compatrioti più poveri non lo negano, ma non possono condividere la visione di lungo periodo. Se perdono il lavoro oggi,  può darsi che i loro bisnipoti avranno una vita prospera, ma la loro vita oggi sarà totalmente  rovinata. Il lungo periodo è reale, ma è una prospettiva di cui solo i ricchi possono godere.

Esistono persone che badano esclusivamente ai propri interessi privati, ma sono più rare di quanto si pensi. Uno stato-nazione votato esclusivamente allo sviluppo economico è egualmente raro, perché perseguire la crescita economica senza considerare il pericolo che la ricchezza comporta è un suicidio: più sei ricco, più è grande la tentazione degli altri di attentare alla tua ricchezza. Difendere la propria ricchezza è importante tanto quanto accrescerla; ma la difesa della ricchezza è in conflitto con la costruzione della ricchezza, sia in termini di risorse che in termini culturali.

Infine c’è un aspetto più profondo: per realizzare la crescita economica occorrono generazioni cui toccano sacrifici e austerità per raggiungere l’obiettivo. Queste acquisiscono una disciplina sociale per cui i genitori sacrificano comodità, speranze e aspirazioni per permettere ai figli di vivere in condizioni migliori e avere successo. Questo atteggiamento, che è il fondamento dello sviluppo economico, nega il modello sociale per cui gli individui nella storia perseguono esclusivamente i propri interessi personali.

Tutti questi scenari non esistono nel vuoto, nella sospensione del tempo. Società e popolazioni marciano a ritmi differenti: la società conta in termini di generazioni e di secoli, l’uomo in termini di anni e decenni. Ciò che costituisce una semplice fase di passaggio nella storia americana, un esiguo frammento della sua economia, è per l’individuo la storia della sua vita.

Questa è la tensione fondamentale tra nazione e individuo: le nazioni operano in un tempo differente. Quando gli individui interessati sono disorganizzati e poco numerosi, la nazione prevarica l’individuo. Se l’individuo capisce che i suoi figli potranno fare un significativo balzo in avanti nelle loro condizioni di vita, può anche adeguarsi e accettare i sacrifici. Ma quando le persone interessate costituiscono un blocco considerevole e i benefici futuri non sembrano comportare cambiamenti significativi per la felicità dei figli, è invece probabile che oppongano resistenza.

Traduzione riassuntiva di Valentina Viglione

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