Il fallimento del multiculturalismo in Germania e in Europa

01/11/2010

Con le dichiarazioni del 16 ottobre 2010 il cancelliere tedesco Angela Merkel ha esplicitamente riconosciuto una situazione ormai chiara da tempo.

 

Liberamente tratto da un articolo di George Friedman.

Con le dichiarazioni del 16 ottobre 2010 il cancelliere tedesco Angela Merkel ha esplicitamente riconosciuto una situazione ormai chiara da tempo.

Un po’ di storia.

Nel secondo dopoguerra in Germania mancava  manodopera per due  ragioni:

1)    gli effetti devastanti della guerra (e dei campi di prigionia russi) sulla popolazione;

2)    il miracolo economico generato dalla crescita industriale degli anni ’50.

Inizialmente la Germania riuscì a raccogliere popolazione e manodopera offrendo rifugio e cittadinanza alle comunità di tradizione tedesca  dei paesi dell’Europa centrale e – ovviamente - della Germania Est comunista.  Questi afflussi  supplirono per qualche anno alla perdita di popolazione dovuta alla guerra, ma non fu sufficiente allo sviluppo dell’industria per l’esportazione e alla ricostruzione edilizia degli anni ’50            .

La Germania stipulò accordi per reclutare manodopera prima con l’Italia (1955), poi con la Spagna (1960), la Grecia (1960), la Turchia (1960), la Jugoslavia (1968)Questi accordi causarono un afflusso massiccio di “Gastarbeiter” (lavoratori stranieri) nella società tedesca, che venivano però considerati lavoratori temporanei e non immigrati. Al termine dei contratti i lavoratori avrebbero dovuto rientrare in patria – ed effettivamente così avvenne per la grande maggioranza degli Italiani, Spagnoli e Portoghesi.

Grazie ai lavoratori stranieri la popolazione tedesca negli anni 60 abbandonò gradualmente i lavori non qualificati spostandosi sul settore impiegatizio.  La Germania non aveva però considerato gli aspetti politici del problema dell’integrazione dei migranti. Con il declino economico del 1966 e la recessione che seguì la crisi petrolifera del 1973  la situazione cambiò, e la Germania dovette fare i conti con una massa di lavoratori disoccupati. Le regole sull’immigrazione vennero inasprite, ma questo non risolse il problema: molti lavoratori già in territorio tedesco non vollero andarsene, e chiesero il ricongiungimento familiare.

Dopo il rientro in patria dei lavoratori europei i Turchi rimasero in maggioranza, e continuarono ad aumentare di numero: molti di loro approfittarono della generosa legislazione tedesca sul diritto d’asilo (che risentiva del senso di colpa per l’Olocausto) per entrare come ‘asylanten’ dopo il colpo di stato turco del 1980. Gli immigrati erano ormai una comunità radicata. La Germania non voleva integrarli nella società tedesca, ma doveva assicurarsi che fossero leali allo stato, vista la consistenza della loro comunità. 

Dopo l’ondata di proteste dei musulmani in Europa degli anni ‘80, la Germania adottò – come la maggioranza dei paesi dell’Europa occidentale - il modello multiculturale: la comunità immigrata conserva e trasmette la propria cultura, i propri costumi, la propria lingua  e religione, ma opera per il rispetto delle leggi dello stato.  La Germania ammetteva così nei suoi confini un gran numero di stranieri che non parlavano tedesco e non condividevano i valori culturali tedeschi ed europei. Il multiculturalismo più che essere basato sul rispetto della diversità era piuttosto un modo per evitare la riflessione sulla questione: “Che cosa significa essere tedeschi? Come dovrebbero comportarsi gli immigrati per potersi definire tedeschi?”

Due concetti di nazione.

Il concetto europeo di nazione è sostanzialmente diverso da quello americano.

Per gran parte della loro storia gli USA hanno considerato se stessi come una nazione di immigrati, ma con un nucleo culturale ben preciso: chiunque avesse voluto diventare americano doveva in primis accettare la lingua e la cultura dominante. Ovviamente erano contemplate le differenze, ma alcuni valori dovevano essere condivisi. La cittadinanza diventò un concetto legale che richiedeva un iter burocratico, un giuramento e l’accettazione di valori comuni.

In Europa essere francesi, polacchi, italiani o greci ha un significato storico, perché i genitori e i nonni lo sono stati in precedenza; significa condividere una storia di sofferenze e trionfi che non si possono acquisire dal nulla.

Nonostante la retorica buonista, per gli Europei il multiculturalismo non significa rispetto per le altre culture, ma è un modo per gestire il problema dell’influsso di immigrati. Il multiculturalismo è un contratto che permette agli immigrati di conservare la propria cultura in cambio della lealtà al paese, mentre protegge i valori europei dalla possibilità di contestazione e ‘contaminazione’ da parte di comunità che non ne condividono la storia.

Il multiculturalismo ha - ovviamente - favorito l’alienazione degli immigrati: potendo conservare la propria identità culturale, gli immigrati non sono interessati al destino della Germania, perchè si identificano più con il loro paese d’origine che con la Germania stessa. Per i Turchi in Germania la Turchia è ‘la patria’, la Germania è il posto dove conviene vivere. L’idea che la lealtà alla propria patria sia compatibile con la lealtà verso lo stato ospite è semplicistica: nel mondo reale le cose non funzionano così.

Il cancelliere tedesco è oggi  il leader europeo più critico del multiculturalismo. E la Germania (così come la maggioranza dei paesi d’Europa) ha ripreso a confrontarsi con la storia: per 65 anni ha evitato di affrontare la questione dell’identità nazionale, dei diritti delle minoranze e dei propri interessi, perché schiacciata dal peso della colpa della Shoah. Atteggiamento da apprezzare. Ma ormai la discussione su che cosa è la nazione e che rapporto ha con lo stato non è più eludibile.

Il riemergere della coscienza nazionale tedesca.

Due fattori hanno favorito il riemergere della coscienza nazionale tedesca:

1)    la grande massa di lavoratori turchi e musulmani è sempre meno gestibile;

2)    il nuovo ruolo della Germania all’interno degli organismi internazionali.

La NATO, composta principalmente da paesi senza grandi capacità belliche, è in crisi. E anche l’UE è stata messa in discussione dalla crisi economica greca. La Germania sta cercando di ridisegnare le istituzioni europee per non doversi assumere il ruolo di garante finanziario dei paesi più deboli, e questo l’ha spinta a ripensarsi come nazione. Anche rimettere in discussione la propria posizione sul multiculturalismo implica il ripensamento del proprio ruolo come nazione  ora  che, finita la guerra fredda e raggiunta l’unificazione, c’è nuovamente una possibilità di scelta.  

Adesso la Germania può scegliere ‘come’ stare in Europa. La Germania non solo è rientrata nella storia ma, in quanto principale potenza europea, fa ripartire la storia dell’Europa.

Se ad esempio la Germania non vorrà più accogliere lavoratori stranieri per motivi di stabilità sociale, potrà però decidere di de-localizzare fabbriche, call center, laboratori di analisi mediche e agenzie informatiche. Non molto lontano a est c’è la Russia che, per quanto in crisi demografica, può ancora fornire per anni i lavoratori per questi settori. La Germania dipende già dalla Russia per l’energia: se dovesse dipendere anche da suoi lavoratori, la mappa economica europea potrebbe essere completamente ridisegnata – la storia d’Europa compirebbe una grande svolta.

Le dichiarazioni della Merkel sono molto importanti: dicendo apertamente ciò che era ovvio, ma non era ‘politically correct’, ha innescato una serie di processi che potrebbero avere un profondo impatto non solo sulla Germania e sull’Europa, ma anche sull’equilibrio globale.

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