La fragilità
del sistema economico cinese

29/04/2010

 

La Cina negli ultimi decenni  ha promosso uno sviluppo basato sulla gestione pubblica del consistente  risparmio delle famiglie per finanziare  infrastrutture e industrie di base - trasporti, industrie estrattive, fonti di energia – in modo da favorire l’espansione e la modernizzazione dell’economia. 

Ma il modello cinese ha un difetto: non incoraggia lo sviluppo dei consumi privati, che rappresentano una proporzione troppo modesta dell’economia, basata sulla produzione per l’esportazione e sugli investimenti strutturali. La Cina sa di non poter continuare ad aumentare gli investimenti strutturali e la produzione per l’export  in tempi di crisi - perché significa aumentare l’offerta a fronte di una domanda insufficiente. Questo tipo di politica a lungo termine è insostenibile, e dunque l’unico modo per rendere l’economia più resistente alle crisi e meno dipendente dall’estero è incrementare i consumi e ridimensionare gli investimenti.

Ma quando la popolazione ha in mano  una parte importante della ricchezza nazionale e la può spendere liberamente, di solito tende anche a voler prender parte alle decisioni  pubbliche - l’aumento dei consumi privati incentiva la richiesta di democrazia politica.

In Cina il Partito Comunista continua ad opporsi strenuamente a qualsiasi forma di autogoverno popolare che potrebbe mettere a repentaglio la sua esistenza.

 

Lo sviluppo economico dal 1979 al 2009

La liberalizzazione economica del 1979 innestò  un aumento dei consumi, dato che per la prima volta famiglie, imprese e contadini potevano comprare e vendere. Negli anni ’80 i consumi interni rappresentavano circa il 50% del PIL, le esportazioni e gli investimenti crescevano rispettivamente del 25% e 18% all’anno. Ma a partire dalla fine degli anni ’80 la crescente inflazione e il disordine sociale hanno spinto il governo a passare ad una gestione più centralizzata dell’economia e a frenare l’aumento dei prezzi.

Nel 1992 il leader Deng-Xiaoping lanciò un piano di sviluppo per trasformare le città della costa in importanti centri manifatturieri per l’esportazione. All’inizio grazie all’aumento degli investimenti e delle esportazioni l’occupazione aumentò esponenzialmente e in qualche modo stabilizzò il declino proporzionale dei consumi interni. Ma verso la fine degli anni ’90 le banche (tutte pubbliche), che provvedevano capitali quasi illimitati a basso costo per la produzione export e per gli investimenti strutturali, dovettero affrontare un alto numero di fallimenti e l’aumento smodato della speculazione nel settore edilizio.

Di conseguenza il premier Zhu Rongji a partire dal 1995 iniziò a ridurre la presenza dello stato nell’economia al ritmo del 3% all’anno, causando una perdita di 48 milioni di posti di lavoro. Inoltre l’adozione di politiche fortemente orientate verso le esportazioni portò a un forte squilibrio fra il volume dei consumi e il  volume delle esportazioni e degli investimenti statali.

I consumi interni attualmente sono soltanto il 35% del PIL.  

Negli ultimi vent’anni il ridimensionamento dell’industria di stato e la diminuzione dell’occupazione nel settore agricolo (il 73% nel 1990, il 61% nel 2007) hanno creato la necessità di trovare altri modi per aumentare l’occupazione. Dopo l’ingresso della Cina nel WTO 150 milioni di Cinesi migrarono dalle aree rurali nelle aree urbane. Questa forza lavoro a basso costo venne assorbita soprattutto da imprese private che esportavano all’estero. Per quasi un decennio dunque la crescita dell’economia cinese è stata alimentata dai consumi esteri piuttosto che da quelli interni.

Con la crisi del 2008 e il calo delle esportazioni il governo ha ripreso a iniettare denaro nell’economia per sostenere l’occupazione. In Cina negli ultimi mesi si parla molto di ‘ristrutturazione’ economica’ - per dare maggior peso ai consumi e farne il motore di una nuova crescita economica - ma finora la struttura dell’economia è rimasta pressoché invariata.

 

Differenze regionali

Se osserviamo la struttura economica delle  province cinesi, possiamo individuarne quattro gruppi principali.

1)      Le province orientali della costa, caratterizzate dalla presenza di grandi manifatturieri per l’export. Anche lo Xinjang, nel Nordovest, è legato ai mercati esteri, dato che Pechino sta intensificando i rapporti i con il Kazakistan e l’Asia centrale. Queste sono le regioni più ricche ma più vulnerabili della Cina: la loro dipendenza dall’export è tale che i cambiamenti sui mercati internazionali possono creare una crisi di proporzioni drammatiche.

2)      Le province che dipendono soprattutto dagli investimenti in infrastrutture (Manciuria,  Mongolia, Tibet), poco popolate e ricche di risorse minerarie. Inoltre regioni dell’interno come Jiangxi e Shanxi e Anhhui, molto popolose, ricche di materie prime che vengono sfruttate  e trasformate con capitale pubblico, per tenere alto il tasso di occupazione.

3)      Le province più in equilibrio (Hebei, Jiangsu, Shangdong, Heilongjiang) dove la produzione per i consumi domestici, gli investimenti strutturali e la produzione per l’export sono in equilibrio fra di loro.

4)      Altre province sono esportatrici nette di manodopera, e sono ancora molto povere, dato che non hanno attività economiche locali sufficienti: Henan, Hubei, Hunan, Gansu, Qinghai, Sichuan, Chongqing. In queste province una grave crisi delle esportazioni o degli investimenti pubblici non produrrebbe quasi cambiamenti.

 

Che cosa accadrà?

Nonostante i maggiori investimenti pubblici del 2009/2010 volti a stimolare i consumi interni, Pechino non è ancora riuscita a trasformare la struttura economica del paese e i consumi non sono ancora sufficienti a sostituire in modo significativo le esportazioni in calo. Negli ultimi vent’anni lo stato ha prelevato denaro dalle tasche dei consumatori per finanziare le infrastrutture e la crescita industriale a scapito di stipendi, consumi e servizi sociali. Ma ora deve cambiare registro.

La transizione verso un’economia basata sui consumi richiederà tempo, e nel frattempo ci sarà un aumento della disoccupazione, soprattutto fra gli immigrati dalle aree rurali, che difficilmente verranno assorbiti da un’economia oramai alla ricerca quasi soltanto di manodopera specializzata. E con ogni probabilità il governo non avrà vita facile, dato che dovrà far fronte al  malcontento sociale che seguirà al taglio degli investimenti e all’aumento della disoccupazione.

 

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