Onu, Peacekeeping
e protezione dei civili

05/08/2009

5 agosto 2009   Le azioni di peacekeeping delle Nazioni Unite sono diventate sempre più controverse, soprattutto durante gli anni ’90, a causa dei numerosi fallimenti dei soldati in missione ONU nell’impedire stragi di civili a Sebrenica, in Rwanda e in Congo.   Nel 2001 la Commissione Internazionale sugli Interventi e sulla Sovranità Statale (ICISS) ha dichiarato che la sovranità statale implica responsabilità, la principale delle quali è quella di proteggere i propri cittadini. Ma quando una popolazione viene minacciata da una guerra civile, da possibilità di genocidio o crimini contro l’umanità, e lo stato non può o non vuole proteggere la popolazione, il principio di non intervento viene superato dal principio della  responsabilità internazionale di proteggere i civili. Eppure i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono molto reticenti ad autorizzare lo spiegamento del contingente internazionale senza il consenso del “padrone di casa”, anche quando si tratta di un governo che uccide e perseguita i propri cittadini. Le azioni di peacekeeping delle Nazioni Unite non riescono quando il governo non è disposto a dare il proprio consenso all’intervento delle forze internazionali.   Se il Consiglio di Sicurezza dà l’autorizzazione, i singoli stati possono organizzare una missione militare congiunta per salvaguardare la popolazione civile.   Ma queste missioni hanno svariate limitazioni: sono lente a dispiegarsi, hanno spesso equipaggiamento insufficiente e un livello di addestramento non omogeneo. Inoltre ogni paese negozia con le Nazioni Unite la specifica missione e l’ambito di utilizzo dei propri soldati. Un contingente di questo tipo oltre ad avere differenti standard di preparazione e di capacità  ha una catena di comando complicata. Spesso i comandanti dei diversi contingenti seguono più le istruzioni ricevute dal proprio paese che quelle impartite dal Comandante in carica della  Forza ONU. Un altro limite è rappresentato dalla possibilità di intervento per proteggere i civili. In base al mandato di proteggere i civili che si trovano in una situazione di minaccia imminente di violenza i peacekeepers possono bloccare un attacco che avviene davanti ai loro occhi, ma non possono arrestare i perpetratori o condurre indagini. Questi compiti sono riservati allo stato sovrano ospite e ai suoi servizi di sicurezza, ai corpi di polizia locali o alla gendarmeria,  che in caso di repressione interna o guerra civile risultano inaffidabili o inesistenti.  Sono rarissimi i casi (Timor Est e Kosovo) in cui il crollo dell’apparato statale è tale che le Nazioni Unite assumano la custodia del paese sotto quello che viene chiamato “mandato esecutivo”, che permette al contingente internazionale di controllare la polizia e le altre forze di sicurezza statali.   Fonte: Refugees International,  organizzazione no profit con sede a Washington D.C. che non riceve finanziamenti dalle Nazioni Unite, solo contributi da privati, fondazioni e corporazioni. Per saperne di più www.refugeesinternational.org.   Curato da Emanuela Borgnino

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